Intervista ad Adamo Dionisi, attore, sceneggiatore, ma soprattutto “uno degli ultimi”

Tutti si lamentano del lockdown, delle chiusure. Io, da vecchio brigante, ho tanti amici che come me sono stati al penitenziario e non ho sentito nessuno di loro lagnarsi, anzi. In questa situazione si sentono molto comodi. C’è tra loro chi mi ha detto, scherzando: “Noi manco ce ne siamo accorti: c’avevamo pure un paio d’ore d’aria…”. Questa è gente che nonostante la propria condizione, non perde il sorriso. Non je ne frega niente, il Natale lo hanno festeggiato lo stesso, in modo sobrio, ma con un sentimento molto forte. La gente comune, invece, una volta uscita dopo essere stata costretta in casa, si ritrova esaurita. I pregiudicati no, sono sereni. Era il loro modus vivendi quello di starsene tra quattro mura tutto il giorno, ci sono abituati. Nonostante questo, le persone continuano a non accorgersi delle questioni più importanti. Pensano agli aperitivi, a comprare la roba su Amazon. Viviamo in un paese dove ogni giorno qualcuno muore perché cade da un’impalcatura mentre sta lavorando. Ma il popolo di tutto ciò se ne frega, vengono a Trastevere ogni sera e pensano solo a mangiare e bere, mentre accanto hanno un luogo in cui migliaia di persone vivono rinchiuse da anni.

 

Il tema delle carceri, a te molto caro, sembra essere scomparso da ogni discussione politica e sociale

Vedi, secoli fa si decise di costruire i penitenziari al centro delle città così che i cittadini potessero puntare il dito verso quelli che stavano dentro. Sono poche le persone che possono parlare di questa materia complessa in maniera seria e competente. Una di queste è il mio amico regista Ivano De Matteo. Quando facemmo il documentario Codice a sbarre volevamo raccontare quali erano le situazioni che accadevano dentro il carcere. Ma il popolo non si accorge quasi mai di chi sta peggio, anzi, lo vede come un male da eliminare. L’unica speranza è aspettare che passi la grande nuvola di ipocrisia che ci avvolge, con alcune mosche bianche che rimettano in piedi una società più pulita. Quello che abbiamo vissuto poteva essere un’occasione magica. Due anni di riflessione per tutti, non solo per le persone che scrivono o che vivono di arte. Sono stati due anni in cui si è avuta la possibilità di stare in vacanza con sé stessi più spesso. Solo in pochi però se ne sono resi conto. Purtroppo troppa gente corre appresso a modelli sbagliati o perde tempo in fregnacce come i social e così via. Bisogna ripartire da una cosa: la scolarizzazione. Questo è il primo problema da affrontare, altrimenti tra pochi anni avremo una generazione di capre ammaestrate.

 

Hai parlato dei social. Qual è il tuo rapporto con questo strumento?

Ci capito raramente. Li ho riattivati in questi giorni perché voglio pubblicizzare delle cose che hanno fatto alcuni amici e metto i miei profili volentieri a loro disposizione, ma poi richiudo tutto. Le volte che ci capito non vedo mai contenuti con un valore, o almeno raramente. È una vetrina di merda. Purtroppo la gente si preoccupa solo di questo. Io preferisco farmi una chiacchierata con chi ha un po’ di esperienza e qualche capello bianco, magari facendo una bella partita a zecchinetta.

 

Forse le persone dovrebbero tornare a comunicare e confrontarsi tra loro dal vivo, nelle piazze

Questo oggi accade nei luoghi popolari, nelle borgate. Io, che sono cresciuto in Centro, ho come appuntamento fisso, da sempre, piazza Santa Maria in Trastevere e il bar di Marcello a piazza San Calisto. Noi se mettemo a sede’ là, ce semo cresciuti. Poi me ne vado alla Magliana, o a Primavalle, dove passo ore a chiacchierare e ascoltare le persone, a farmi raccontare le loro storie. Io qui ci passo il tempo, io la conosco questa umanità. So come si vive in certi luoghi, ecco perché ne parlo tanto. Io faccio parte di loro, degli ultimi. Ho la fortuna di avere il libero arbitrio, la possibilità di scegliere, ma sono e sarò sempre uno di loro.

 

Tu che hai vissuto sulla tua pelle l’esperienza carceraria, cosa pensi del concetto di libertà?

A mio avviso un uomo è libero soltanto davanti alla morte. Non dico questo per citare il filosofo Nietzsche, ma perché se ci pensi tante persone non si erano mai accorte di essere realmente vive fino a quel momento. Prima erano inconsapevoli. La libertà la riconosci quando ti viene tolta e quando la riacquisti ne riconosci il valore. Come hanno detto Mendoza, Kant o Leonardo da Vinci, un uomo non è in grado di scegliere: non esiste un vero libero arbitrio.

 

Sei un esempio vivente di come si possa risorgere dall’abisso delle carceri. Come ci si riesce?

Gli strumenti esistono, ma sono pochissimi e non funzionano. Quindi gli sforzi in questo senso sono tutti concentrati nel tentare di metterli in pratica. Solo chi ha una grande forza interiore può riuscire ad agganciare alcuni di questi strumenti. Si parla di istinto di sopravvivenza, quello puro. Anche perché, una volta fuori, nessuno ti dà una mano. Sei totalmente abbandonato a te stesso in una società che spesso non riconosci più, perché mentre eri dento è completamente cambiata. Negli anni ci sono stati dei tentativi per migliorare la situazione. Anche tanti professionisti della cultura e dello spettacolo si sono avvicinati al tema. Con Ivano (De Matteo, n.d.r.) facemmo una campagna di sensibilizzazione per i bambini detenuti a Rebibbia con le madri, si chiamava Belli come il sole. In quel momento ho capito come funzionavano molte cose.

 

Quanto è difficile raccontare il mondo del carcere dall’interno e in modo reale?

Lo è molto, e sai perché? Si preferisce raccontare alla gente che all’interno di un penitenziario è accaduto qualcosa, un fatto eclatante. Se un detenuto esce e vince alla lotteria fa notizia, ma della sua vita dentro la cella non frega niente a nessuno. Il problema è nella testa del serpente. Viviamo in uno stato che genera delinquenza, e lo sa fare molto bene. Una delinquenza da cui può poi far scattare la repressione. Per questo esistono i penitenziari. Non si parla di coloro che tra le braccia di Regina Coeli o delle altre carceri ci muoiono. E sai perché ci muoiono? Sono stati uccisi dalla matricola giudiziaria. Senza parlare delle comunità terapeutiche e di tutto ciò che c’è dietro. Ma fare luce su ‘sta roba è come lottà contro i mulini a vento. Purtroppo tutto è legato al denaro e al potere. C’è un vecchio proverbio che mi raccontò un signore di rione Borgo detenuto alla Lungara: “Drento Regina Coeli c’è ‘na rotonda. Ce passa in mezzo chi c’ha la condanna e chi va in libertà poi c’aritorna”.

 

Quindi bisogna arrendersi?

Mai. Io non ho abbandonato l’idea di far luce su queste situazioni, soprattutto quando si tratta di soggetti svantaggiati, come detenuti o persone che si trovano nelle cliniche terapeutiche, gli ultimi insomma. Io sono al mio “terzo giro”, come si dice, e mi voglio prendere quello che mi spetta. Vivo a Cerveteri, lontano dalla grande città, dove posso godermi buon cibo e buon vino e concentrarmi su ciò che penso sia importante: lo studio e l’interesse nei confronti di chi si trova in difficoltà. Ho già tanto da fare con i miei ricordi…

 

 

Di Gianluigi Spinaci

Illustrato da Marta Bianchi