I SOGNI DI PAOLETTO LION

 

M’era presa ‘na strana e quanto mai nuova voja de studià, ‘na voja de quelle irrefrenabili, de quelle che dici ‘me sa che da grande vojo fà lo studioso’. A trent’anni sonati? E vabbè perché? Che a trent’anni nun se possono cambià li progetti de vita? Embè io mo c’avevo proprio ‘na brama de conosce, de sapé le cose.

“Sì, ma che cosa vuoi conoscere?”, me diceva Marietto.

“E che vojo conosce, non lo so. Se ancora nun lo conosco come faccio a sapé che cos’è?”

“Devi scegliere un argomento, qualcosa… sennò come fai a iniziare?”

In effetti Marietto c’aveva ragione, è sempre pignolo e pronto a mette i puntini sulle i, insomma un bel cacacazzi, ma stavolta c’aveva proprio ragione. Vabbè, io comunque n’è che potevo inventamme de studià chissà che, n’è che uno se inventa astrofisico o biologo così, da ‘n giorno all’altro. Me so messo a rovistà nella libreria de mi nonna, prima d’annamme a scofanà er secchio de fettuccine al pommodoro che Marietto me stava a preparà, ed eccolo là, in bella vista, er libro perfetto pe’ me: Miti di Roma! Eroi, dei, leggende…

Ma se sa com’è: mettese a legge, che io dicevo studià ma in realtà era legge, dopo du’ etti e mezzo de fettuccine, cinque o sei pezzi de caciotta, la peperonata avanzata della sera prima che tra l’altro m’ero mangiato felice co’ Elettra, e dopo ‘na litrata de rosso campagnolo, nun è mai ‘na grande idea.

Già sentivo un pochetto quella sensazione de trasporto e de offuscamento che spesso anticipa er sonno, ma avevo proprio pensato “Ammazza gajarda sta mitologia romana, te rapisce proprio…”

In mezzo a ‘na nebbia fitta fitta che nun vedevo a ‘n palmo de mano, camminavo lungo ‘na salita erta e me pareva de sta a scalà ‘na montagna, pure che non lo potevo dì con certezza avendo i sensi offuscati, appunto, da ‘sta nebbia. Sulle vie da percorrere non avevo scelta, eppure me pareva che ‘na guida, come un venticello, me soccorreva indicandomi in qualche strano modo, col tatto più che con la vista, il sentiero più sicuro. Camminavo da ‘n ber po’, potevano esse du’ ore come du’ giorni, ero stanco morto e me dolevano le gambe ma qualcosa me diceva che non me dovevo fermà, e mi lasciavo trasportare. Nella nebbia e nel silenzio assordante, anche il mio udito, dopo il tatto, si riaccese. Voci. Voci da ogni parte che parlottavano fra di loro. Continuavo a camminare, non distinguevo bene, ma me parevano le vecchie comari der paese, che a furia de parlà e riparlà creano come un brusio continuo. A volte una voce s’imponeva sulle altre ma poi ritornava il solito brusio. Passo dopo passo me pareva d’avvicinamme alla fonte de ste voci, anche perché cominciavo a distinguerle rendendome conto che se rivolgevano proprio a me. Chi me chiamava per nome, chi me chiamava e basta. Io non arrestavo di un passo, sempre guidato dal venticello, ma insomma un po’ d’ansietta ce l’avevo. Come facevano a sapé er nome mio ste voci? E poi ch’erano ste voci? Spiriti? Pensieri miei? Quelle che s’imponevano di più erano una più soave dell’altra: una era limpida, tanto trasparente e avvolgente, quasi scivolosa e me pareva d’esse richiamato dall’acqua stessa, un’altra invece era scintillante ed eccitante e me faceva venì voja de ballà come ‘n pazzo. Era ‘n foco. Incontrai una voce intima e dolce come ‘na madre, ed un’altra ch’era come ‘na calamita, attraente e bellissima, proprio come er desiderio. Ma sotto, ed era quello a creare il brusio che sentivo, una miriade di voci si stagliavano da non se sa dove, e se capiva che se stavano a sgolà pur de fasse sentì. Tutti m’offrivano qualcosa, io continuavo a camminà e non me fidavo più de tanto, a dire il vero. Ma insomma erano insistenti, me pareva quasi de stà ar mercato, dove però non m’offrivano le solite cosette, chessò na cipolla o un melone, du’ etti de pecorino oppure li moscardini freschi. Manco ‘n po’. Questi offrivano robba strana, che ‘nfatti me parevano pure un pochetto dei sòla: na gita su’n carro, bagni rigeneranti, il silenzio più rilassante di sempre, i frutti più boni del mondo, le carni più bone del mondo, la saggezza infusa. ‘Ndo ero finito? Più camminavo e più ste voci se facevano forti e intense, finché un rombo ed un lampo brevi e secchi si diramarono dapperutto mettendole a tacere in un batter d’occhio. Io continuavo la mia strada indotta da quel vento, che solo ora capivo che davvero m’aveva accompagnato e protetto durante tutta la mia scalata, e quindi capivo che ‘sta strada aveva una meta, un obiettivo finale, sarebbe finita e avrei incontrato qualcosa o qualcuno che me voleva lì. Stavo semplicemente seguendo la voce più potente.

“E finarmente ce sei arivato”, era stato er venticello a parlamme.

“Che me leggi pure ner pensiero?” – strillai senza accorgermene, saltando e avendo ora paura di quel vento leggero che me trascinava. All’improvviso divenne più forte e, come risucchiato dalla forza di gravità o da un mulinello, arrivai, senza particolari scossoni, sul tetto delle nuvole, dove er cielo era azzurro fino al midollo e lo si poteva osservare in tutta la sua ampiezza, non essendoci il sole, nonostante ‘na calda luminosità, ad ostruirne la vista. Davanti a me, proprio lì davanti a me si ergeva in tutta la sua immensità quello che non avrei potuto non riconoscere neanche ad occhi chiusi: Giove, il padre degli dei mi si presentava nelle sembianze in cui gli uomini lo avevano immaginato per secoli. Come un gigante seduto sul suo trono, con tanto di barba e capelli bianchi, fulmine in mano e sguardo severo ma calmo. Non dissi nulla, e che potevo dì?

“Paoletto Lion. Asrtrologo. Dimme ‘n po’, che ce fai qui?”

Forse m’ero sbagliato. Forse non era Giove quel colosso, doveva esse un mio pensiero. Mo che ce facevo caso, Giove che me parlava in romano proprio come lo parlo io me pareva parecchio strano.

“Non te stranì sor Paolé, io parlo tutte le lingue. La mia voce è er vento! E poi insomma, so’ o non so’ er dio romano per eccellenza?”

E allora sì, era proprio lui. Me guardava co’ n’aria tanto serena che non ebbi più paura. Pareva davvero che fosse felice d’avemme lì. Col suo sguardo m’esortava a parlare e io, allora, dissi la prima cosa che me venne in mente: “Ma io me ricordo che me stavo a magnà lo spaghetto ar pommodoro de Marietto, e poi me so’ ritrovato in mezzo alla nebbia e poi ho cominciato a sentì delle voci, che me volevano vende quarche cosa”.

Ma Giove manco m’ascoltava, j’era venuto ‘n sorisone gigantesco, l’aria intorno s’era messa a fischià e me pareva che me stesse a dì qualcosa tipo “Bello mio, so’ proprio contento d’avette qui”.

C’avete presente com’è quella sensazione, quando te lasci andà a un momento de gioia, in cui ridi, sorridi, non ti trattieni dalla contentezza? Come quando torna da lontano una persona a cui ce tieni tanto e che non pensavi ad altro che a rivedella? E c’avete presente quel morso che vi prende subbito dopo, non appena quel momento d’abbandono gioioso è passato, quando vi rendete conto che quella persona dovrà ripartire, ed anche molto presto? E allora vi incupite di nuovo, e sapete già che non riuscirete a godervi quei momenti come avreste voluto.

Proprio così successe lassù, nell’alto dei cieli, dove Giove, padre de tutti gli dei e de tutti l’omini, dei cieli e dell’universo intero, dopo ‘n attimo in cui non riuscì a trattenere la sua felicità, all’improvviso s’incupì, e con lui se rabbuiò tutto quanto intorno. Non era arrabbiato, era soltanto triste. Allora io me misi là a chiedeje “Ma ‘nsomma, Giove, che t’è preso?”. Scoprii ch’era depresso. Era proprio tanto triste e non j’annava manco de parlanne, ma io riuscii comunque a tirargli fuori qualcosa. Se sentiva solo, er poro Giove, come ‘n padre abbandonato dai suoi figli. C’aveva tutti gli dei, figli suoi anch’essi, che vivevano lì, questo sì, ma tutti, a dire er vero, se sentivano proprio come lui. Abbandonati. E tutte quelle voci, erano proprio loro che cercavano d’accaparrasse er primo omo che dopo tanto tempo se l’era anche solo immaginati. Senza l’omini loro se sentivano de non valè poi così tanto. Prima erano carichi de responsabilità, dipendeva tutto da loro. Era lui stesso, collaborando coi fratelli e i figli divini, a decidere le sorti der mondo e dell’umanità. “Giove s’è incazzato e c’ha scajato er temporale”, “Giove c’ha regalato ‘n po’ de pioggerella pe’r raccolto de staggione”, “Senti i terremoti, guarda l’uragani, sarà Giove in guerra co’ qualche parente infame che se ribella o lo vole scarzà”. Questa era la vita sua, ma ora, ora nun c’aveva più niente. L’omini, s’erano presi tutto. L’omini l’avevano scarzato da ogni decisione e da ogni responsabilità. Contava come ‘n vecchio rincojonito e nessuno lo pensava più. Manco dopo n’inondazione, dopo ‘na scarica de teremoti, o chessò! E me diceva che quanno era lui a regolà ‘ste cose, non c’era timore de sbajasse, sapeva come fare. Ma mo, che l’omini se credono de potello fà da soli, è ‘n macello.

Io lo ascoltavo attentamente e devo dì che lo capivo pure. Me dispiaceva, però a divve la verità, me faceva pure ‘n po’ incazzà.

“Ma Giove, tu sei er capo supremo, immortale e potentissimo. Fa’ quarcosa invece de piagnete addosso”, me scappò, e subito me ne pentii vedendo nel suo sguardoo ‘na scintilla de foco, che però se riassopì subito nei suoi occhi tristi.

“Vedi Paolé – me disse – io non posso fà nulla se voi non me credete. Io ce sto, sto sempre qua. So vostro padre, ‘ndo dovrei annà? Ma senza che voi m’immaginate, se non ve fidate, se manco, ormai, me conoscete più, io non posso fà proprio un bel nulla, e posso solo guardà”.

Continuò a spiegamme che tutto je pareva perduto, che non solo l’omini non lo veneravano più, non solo non j’accollavano più le responsabilità dei beni e dei mali che je capitavano, ma ormai l’avevano proprio superato, segregandolo a un angolo de letteratura, che manco lui cor padre suo era stato così cattivo. L’omini l’avevano superato e stavano a distrugge er monno che lui, con l’aiuto dei fratelli e figli divini, aveva mandato avanti con tanta cura.

Triste e corrucciato che manco me guardava nell’occhi, se scrutava i piedi come ‘n bambino deluso, quando de novo quel lampo de foco gli balenò nello sguardo. ‘Na scintilla lo riaccese, come ‘na puncicata improvvisa, come quando ‘na pensata improvvisa determina l’azione o dà ‘na svolta decisiva al discorso. Si alzò in piedi e con voce decisa e profonda, indicandomi con la mano sinistra, mi disse:

“Ma insomma dimme un po’, io vorrei sapé proprio chi è sto vostro nuovo dio che ve comanna ora?”

“Non c’abbiamo nessun dio, Giove. Ai giorni nostri nessuno crede più a n…”, provai a spiegaje, ma mi interruppe bruscamente, adirandosi ancor di più:

“Ce l’avete che sì, un dio! Un dio infame che manco se proclama come tale, che nun c’ha l’onore da fasse vedé in faccia. Sto zotico cacasotto che se pija tutte le colpe che un tempo l’omini davano a me! Che ve comanna, ve fà morì e ve fa vive come più je piace a lui. Che ve fà incendià le foreste dell’amico mio SIlvano e scioje li ghiacci de mi fratello Nettuno, che ve permette de coltivà e allevà come ve pare e piace e de modificà la Terra, vostra Madre, mia madre, socia e concubina. ‘Sto dio che non solo vi concede, ma addirittura ve dà er diritto d’impossessavve de tutto. Come osa? Chi è? – me tuonò Giove in faccia – Do sta? Che se lo pizzico je do du tortorate fra capo e collo, je sfragno sto furmine in fronte, l’attorciglio come a ‘n serpentello! Fammelo vedè, indicame sto zozzone che s’è preso tutto ciò ch’era mio!”

Giove aveva gli occhi completamente infuocati, er fulmine je scintillava nella mano rovente ed alzandosi mostrava tutta la sua imponenza. Un gigante grande quanto er cielo tutto, in possesso delle stelle, dei mari, dei venti e dell’universo. Beh, me la diedi a gambe levate e m’annai a nisconne dietro a ‘na nuvoletta bianca bianca. Quello però, con un impercettibile gesto dell’indice la spostò, lasciandomi inerme e scoperto. Me la stavo a fà addosso davero, quando n’espressione serena e paterna, saggia direi, je ricomparve sul volto.

“Embè, ma che te nisconni? Che c’hai paura? – un sorriso, con le labbra appena socchiuse je distese ancor più er viso – che te credi che me la pijo co’ te? E che non lo vedo che sei un poretto qualsiasi?”

Un poretto qualsiasi, pensai, in effetti non c’aveva tutti i torti. Io non c’avevo colpe, Giove lo sapeva. Eppure non capivo er discorso che me stava a fà. Non ce l’avevamo noi, uomini der duemila, un dio che ce comannava, che ce negava o che ce concedeva. Noi potevamo, in un certo senso, tutto.

Risedette sul suo trono e riprese dimensioni quasi umane, guardandomi fisso. Dolce, paterno, riprese distanza. Autoritario, mi infuse di nuovo una certa calma, mentre io, nonostante tutto, cercavo di dare un senso a quelle parole, convinto anch’io che, in fondo, avesse ragione.

Al mio risveglio, perché de’n sogno se trattava, c’avevo er libro sulla panza, er tavolo era mezzo sparecchiato, giusto quarche avanzo qua e là. Non ero più nella casa degli dei. Ero a casa mia, col mio libro, i miei vestiti e tutte le mie cose. Marietto doveva esse andato a casa sua ed Elettra doveva sta nel suo terreno, poco fori Roma, a fà la sua arte. Ho fatto un giro, ho comprato er giornale e ho continuato la vita de sempre, col mio lavoro d’astrologo e le mie giornate ar bar. Ma la voce de Giove, co’ tutto che sapevo esse stato ‘n sogno, me rimbombava dentro e me so’ accorto che tutto er giorno lo passavo a cercà d’individuà sto dio, in cui, a suo dire, credevamo.

E alla fine, fra notizie e vita de tutti i giorni, non ce misi tanto a riconoscerlo. C’era ‘na sola costante: ed era er mio, er tuo e er suo. Era questo er nostro dio, questa la nostra triade divina. E ‘na volontà che insieme a ‘sta triade governava er tutto, ‘na volontà d’accumulo, ‘na volonta avara. Un dio inventato da noi, proprio come l’artri, ma inventato da noi pe’ un noi, anch’esso inventato. Senza morale, senza freni, senza equilibrio. Un dio assoluto, ma assoluto davvero, che non vedeva ‘n faccia a niente, se non a se stesso. Un dio che non se curava dell’omini, o der mondo, ma solo de se stesso. E noi, devoti, prendevamo esempio. Era er dio dell’avere, che ce stava a fa dimenticà er verbo essere, che stava a distrugge er mondo, ma più ch’er mondo, noi stessi.

 

Di Paoletto Lion

Illustrazione di: Elisa Lipizzi

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