Gianicolo, è notte. All’improvviso dall’alto cade l’urlo di una donna.

 

Ciao Nì, me senti? So io. Te vojo bene.

 

Camminando per le strade di Roma raramente si pensa ai carcerati, anche se molti di loro abitano proprio nel cuore di quella stessa città. La loro presenza ci viene ricordata da rituali forme di comunicazione che mi piace chiamare di sconfinamento.

Dagli anni Trenta del secolo scorso gli strilloni, uomini dal tono possente, si prestano a dare voce alle signore che vogliono comunicare con i loro cari in carcere. La terrazza del faro del Gianicolo dista, in linea d’aria, pochissimo dalle celle d’angolo del carcere di Regina Coeli. Da qui, complice il ponentino romano, i familiari dei detenuti si avvicinano al faro per comunicare, gridando. I cari rinchiusi a loro volta organizzano gruppi d’ascolto, passando poi parola di cella in cella. Si dice addirittura che durante il fascismo, attraverso messaggi in codice, i detenuti politici venissero informati sugli sviluppi della guerra partigiana.

L’immaginario dello sconfinamento è anche alimentato da alcune immagini cinematografiche indimenticabili. Il film di Renato Castellini Nelle Città l’inferno del 1958 è ambientato nella sezione femminile del carcere di via delle Mantellate. In una memorabile scena Anna Magnani, insieme a una compagna detenuta, si arrampica davanti ad una finestra e, grazie ad uno specchio, osservando la città, nota un uomo all’esterno del carcere.

“Anvedi che fusto”, esclama la Magnani.

Non sapendo chi sia, le due donne provano ad attirare la sua attenzione gridando a squarciagola dei nomi a caso: “Mariooo, Giuliooo, Pierooo”.

Ma in questa sera di agosto, il grido della donna non si disperde nel nulla: dalla cella si sente, all’esterno, un urlo di risposta.

Allora la voce femminile riprende vigore: “Te vojo beneee”.

Lui risponde ancora, ma sul Gianicolo passano alcune auto rumorose e lei non capisce. “Amò nun te sento, stanno a passà le macchine…”.

 

Quando nella primavera del 1973 nelle galere romane monta la protesta per la riforma del codice di procedura penale i detenuti del carcere di Regina Coeli si fanno sentire: nel carcere di Trastevere si sale sui tetti. Le voci di dissenso recluse dentro le mura carcerarie risuonarono quell’anno sopra i tetti di tutto il centro, verso il Tevere e oltre.

 

dentro a Regina Coeli c’è ‘no scalino

chi nun salisce quello non è romano

nun è romano e manco trasteverino.

 

Lo scalino di Regina Coeli è sacro e minaccioso, rappresenta la sacra porta intagliata nelle mura che delimita l’altro mondo: al di là della linea abita il nemico.

“Lì si entra, non si esce. Ma Roma è, per gli uomini e per le donne, fuori dallo scalino.” (C. Levi)

 

Il carcere nasce dentro la città.

Prima ancora che l’Italia fosse unita in un unico Paese, il patrimonio carcerario italiano è prevalentemente caratterizzato dal recupero di tipologie edilizie già inventate, la cui funzione originaria pare ben adattarsi alle esigenze della pena. Ed è così che castelli, conventi, fortezze e palazzi signorili che segnavano puntualmente, con la loro imponenza, i centri abitati, vengono riadattati per lo specifico uso penitenziario.

Persino le strutture di nuova costruzione vengono inserite all’interno del tessuto cittadino, diventando luoghi spesso di grande rilevanza per la città stessa. La posizione urbana infatti incentiva l’intreccio ed il contatto continuo, fisico e visivo, con la città circostante.

Un terzo del patrimonio edilizio carcerario italiano rimane, ad oggi, risalente a quei modelli di epoca preunitaria, inseriti all’interno dei centri urbani.

In un carcere interno alla città, il detenuto si sente psicologicamente meno strappato dal proprio contesto, grazie anche alla maggiore facilità di accesso da parte dei familiari alle strutture. Lo stesso si può affermare per quanto riguarda le reti sociali e gli enti locali: il contatto con il mondo esterno appare più fluido e immediato.

É il caso però di riflettere sul problema, affrontandolo anche nei suoi aspetti negativi. Le strutture posizionate all’interno dei centri storici risalgono, come anno di costruzione, ad un’epoca in cui il senso della pena era, seppur apparentemente, differente. A ciò si aggiunge, in generale, una maggiore ristrettezza spaziale dovuta al loro inserimento all’interno di un tessuto, il più delle volte, denso e affollato.

Queste due constatazioni di fatto si portano dietro inevitabili conseguenze spaziali quali: sovraffollamento alle stelle, vetustà della struttura, ambienti asfissianti, mancanza di luoghi da adibire al trattamento e alla rieducazione, assenza di spazi aperti per la vita all’aria, fuori dalle celle.

Nel tempo, abbiamo assistito così alla progressiva sostituzione funzionale dei vecchi complessi carcerari dei centri urbani che non presentavano significative potenzialità trasformative nel senso della qualità della vita. Queste strutture vengono infatti spesso vendute a privati e convertite in musei.

Anche Regina Coeli ha più volte rischiato di essere venduta. Il ministero di Grazia e Giustizia ha tentato di cedere gli storici carceri passandone la proprietà a Cassa Depositi e Prestiti in cambio della costruzione di un nuovo carcere fuori dal centro cittadino. Cosa diventerebbe quindi lo storico carcere? Anni fa si parlava di un nuovo Hotel, Hotel Regina Coeli, ma per il momento le voci si sono concluse con un nulla di fatto.

Il carcere di Regina Coeli è esattamente uno di quei complessi edilizi riadattati: un ex convento trasformato nel 1881 in struttura carceraria. Oggi risente appunto di tutti i problemi sopraelencati. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone del 2017 i detenuti a Regina Coeli contano 990 persone, a fronte di una capienza di 617, di cui 475 stranieri (il 70%). Il suo sovraffollamento è quindi del 160,5%. È una casa circondariale quindi il tempo medio di permanenza è di 6 mesi. Vi sono 8 sezioni, nella quarta troviamo i tossicodipendenti, nella settima i nuovi giunti, nell’ottava i bisognosi di particolare cautela (tra cui i sex offenders). Nella seconda vi è invece un “reparto protetto” dedicato ai detenuti in osservazione psichiatrica in attesa di trasferimento. Tutte le sezioni sono in regime aperto (per 8 ore al giorno) e la quinta è a regime di sorveglianza dinamica.

Si tratta di un edificio molto vecchio che ha subito un recente intervento di ristrutturazione con numerose restrizioni da parte della Sovrintendenza ai beni culturali. La terza sezione ha cercato infatti di mantenere inalterata la struttura originaria per esigenze di conservazione storica. Fatto comprensibile dal punto di vista del patrimonio, un po’ meno dal punto di vista del moderno senso della pena. Si avverte una generale carenza di spazi comuni interni: son totalmente assenti aree verdi, campi di calcetto e luoghi di culto.

Regina Coeli è infatti una delle poche carceri d’Italia a non avere una cappella per il culto cattolico: la messa e le cerimonie cattoliche vengono realizzate nella prima rotonda del carcere mentre le attività di culto di coloro che appartengono ad altre confessioni si svolgono nella sala polivalente. Non c’è una palestra o un altro spazio interno dedicato ad attività sportive, che si svolgono sempre nella sala polivalente. Il fatto che molte delle attività fuori dalla cella si svolgano in uno stesso unico luogo crea un evidente problema di turnazione tra le funzioni e tra le categorie dei detenuti, con conseguente difficoltà di accesso frequente da parte del singolo.

 

Rimane un dato di fatto che il carcere dentro la città, grazie alla sua posizione, è circondato da un’aura di storicità sedimentata, da un intreccio cospicuo di storie sociali e culturali nel carcere e attorno al carcere stesso. La rimozione fisica, inutile dirlo, si porta dietro la rimozione della memoria.

Dalle segrete medioevali ad oggi, come osserva lo studioso Mauro Palma, la questione che rimane storicamente irrisolta è il poter essere visto del soggetto carcere, dall’esterno.

 

Come può questo mondo essere osservato, indagato, visitato, analizzato? Qual è la relazione con l’esterno che esso riesce, anche attraverso il proprio schema architettonico, nella propria rappresentazione concreta, a proporre? Qual è inoltre la sua visibilità non fisica, ma concettuale all’esterno? E quali meccanismi positivi può indurre l’apertura all’esterno resa visibile anche attraverso una caratteristica architettonica dialogante?

(M. Palma)

 

Secondo Maura Palma, matematico e presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, nelle diverse risposte a tali interrogativi risiede la differenza tra due istituzioni. Vi sono quelle segregative di mero contenimento, la cui finalità è restituire all’autore un male simmetrico a quello prodotto, e le istituzioni segregative che individuano qualche utilità nella propria funzione, ponendosi l’obiettivo di riannodare i fili che la commissione del reato ha reciso.

 

Le prime hanno desiderio di vedere ma non di essere viste, le seconde hanno bisogno di sguardi a esse esterni perché è proprio nel rapporto con il fuori che realizzano la propria funzione.

 

Il Nuovo Piano Carceri, di recente adozione in Italia, si prefiggeva dei chiari criteri d’intervento. É importante citare il secondo punto del suo piano programmatico perché entra nel cuore della nostra questione: Un ulteriore obiettivo prioritario è quello di decongestionare le aree più popolate delle grandi città mediante la realizzazione di nuovi insediamenti in aree decentrate e a basso impatto urbanistico.

 

Il congestionamento delle metropoli contemporanee è indubbiamente un grosso nodo. Ma, nel tentativo di non contraddire il principio rieducativo della pena, non sembrerebbe più coerente evitare l’eccessivo allontanamento proprio da quell’attore che meglio attuerebbe le pratiche trattamentali, la società civile? Viviamo oggi in un paradosso: l’opinione pubblica definisce, conforma e legittima il carcere, ma nel contempo vive prevalentemente nell’ignoranza dell’universo carcere stesso. Il carcere non è un luogo dato da Natura, imprescindibile. È un luogo eletto, in cui scegliamo di far vivere una sofferenza che, anch’essa, non esiste in Natura. È una sofferenza artificiale, una sofferenza in nome della cittadinanza.

L’Illuminismo aveva prodotto un’idea di carcere trasparente: un’idea pedagogica, in cui ognuno potesse vedere e controllare ciò che avviene nel carcere. In questo modo tutti vivrebbero nella consapevolezza e nella corresponsabilità del mandato del carcere. Tutti saremmo esplicitamente carnefici di ciò che è di fronte ai nostri occhi, nell’ambito di una medioevale spettacolarizzazione della pena. Far visitare il carcere alla cittadinanza sarebbe un controllo della sofferenza inflitta sotto gli occhi dell’opinione pubblica. Si renderebbe esplicito che in quel luogo noi tutti, cittadinanza, stiamo infliggendo quel dolore a quelle persone. Questa sarebbe forse la garanzia più alta del limite della sofferenza e al contempo garantirebbe livelli accettabili di osmosi tra il dentro e il fuori. Sei tu disposto, cittadino, a rispondere di questa sofferenza?

 

 

di Natalia Agati

Illustrato da Marta Bianchi

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