Tanti ricordi, aneddoti e storie ci legano ai luoghi del cuore, a quelli che definiamo profanamente sacri. Quei luoghi dove si respira un’aria di casa, di amore, di amicizia e di bellezza. Ognuno ha i suoi posti del cuore per i più svariati motivi che, per il loro rievocare ciò che è altro dalla realtà comunemente intesa, divengono sacri.

Ierofania è la definizione attraverso la quale l’antropologo Mircea Eliade ci spiega l’esperienza del sacro: «È un termine appropriato, perché non implica null’altro oltre quello che dice; non esprime nulla di più di quanto implichi il suo significato etimologico, e cioè che qualcosa di sacro si mostra a noi». Le immagini che traspirano dai racconti dei trasteverini sui loro luoghi del cuore e sul perché lo siano diventati mostrano per certi versi la natura della loro bellezza, più o meno.

Blu: «Il portone di Via San Francesco a Ripa 2, dove sono nata. O meglio sotto a quel portone. Tolti i baci romantici, è stato sempre il luogo dove parlavo con le mie amiche e si sono sciolte sempre tante cose. Ora non vivo più là però, ogni volta che ci passo, rimane un luogo dove mi fermo e continuo a chiacchierare con le stesse amiche».

Gianni: «Villa Sciarra, lì trascorrevo le mattine di giugno della mia infanzia insieme a mia nonna che non c’è più. Ogni volta che entro in quella villa non posso non pensare a lei e ai suoi insegnamenti. Me ne tornano in mente tanti ma uno mi colpisce ancora: Gianni non vestirti mai di nero ma usa sempre i colori».

Rani: «I luoghi sacri, i luoghi del cuore sono quelli dove c’è stato il cuore. Sicuramente uno è il ponte, Ponte Garibaldi, sotto, dove ho vissuto. Il rumore dell’acqua, la gente che ci è passata. Il Ponte era la città per me, era l’unico modo, in quel momento, che avevo per vivere Roma. Mi ha dato libertà e solitudine, la possibilità di uccidere il tempo senza soffrirne. Dicevo ad una persona di strada, l’altro giorno, per un buon consiglio, è più facile comprare un palazzo di tre piani che uscire dalla strada. Per strada ti ci accomodi, ti abitui a non fare nulla e lasciarti andare. Io non l’ho vissuta così, a me per certi versi è piaciuto e mi ha dato tanto. Un altro luogo è il bar, il baretto, la taverna. L’umanità e le persone che lo vivono. Noi abbiamo il San Calisto che per noi vale di più perché siamo di qui, perché io ho vissuto qui. Per altri saranno altri bar ed è giusto che sia così».

Luca: «Ovviamente il Bar San Calisto. È l’ultimo posto che resiste al turismo di massa, è l’ultima barricata alla gentrificazione del nostro Rione».

Maria Adelaide: «Il mio luogo sacro a Trastevere è Ponte Sisto. Passavamo le giornate lì con gli amici di sempre, tutti insieme. Ogni volta che ci ripasso, e spesso ci vado apposta anche da sola, quel senso di stare insieme ritorna e mi calma, qualsiasi cosa stia succedendo a me o nel mondo».

Alberto: «Senza esitazioni la Chiesa di Sant’Agata e per svariati motivi. Primo, custodisce la statua della Madonna del Carmelo, patrona del Rione. Secondo, mio nonno materno è stato per tantissimi anni esponente dell’Arciconfraternita del Carmine. Terzo, mio padre è stato a lungo Governatore della Confraternita. Quarto, io stesso, da pischello, ero confratello e indossavo con orgoglio il saio bianco e la mazzetta marrone. Quinto, lì, primo ottocento, è stato celebrato il matrimonio di nonno e nonna».

Gianluigi: «Per me è Piazza in Piscinula. Lì, in un appartamento di un palazzo coperto da un’enorme edera, ha abitato per decenni la famiglia di mio padre. Trent’anni fa provò a ricomprarla per tornarci a vivere con me e mia madre, ma capirai ora ci vive una coppia di americani. Chissà, forse un giorno riuscirò a ricomprarla io. Sarebbe bello… sarà dura».

E poi i cinque vecchietti appollaiati alla fine di via Garibaldi: «Qui sotto ar noce, sotto all’arbero. Lo vedi che ber noce che è, noi stamo sempre qua, se semo portati pure le sedie. Se sta tanto bene, s’accompagnamo, perdemo tempo tra di noi e poi passano tante belle ragazze, se pò ancora dì?».

Di Andrea Cori

Illustrato da Giuseppe Maggiore