Tra identità popolare, nuovi linguaggi e contaminazioni
Cos’è oggi la musica popolare? Esiste ancora un repertorio specifico che rientri sotto questa definizione? Possiamo ancora parlare, nel 2021, di musica popolare romana, identificandola magari con la scena rap capitolina? Per rispondere a questi interrogativi è necessario fare chiarezza su un preliminare concetto di base: la differenza tra musica popolare e musica di consumo. Una distinzione su cui diversi studiosi si sono interrogati nel corso degli anni, e che ritorna quanto mai attuale in un mondo iperconnesso e globalizzato, dove i linguaggi artistici si mescolano ad una velocità incredibile, contaminando così codici stilistici e registri espressivi anche molto distanti e diversi tra loro.
La musica popolare per come la conosciamo in Italia è sempre stata espressione di un nucleo sociale ben definito, che attraverso il proprio repertorio cantato, danzato, suonato, aspirava ad un auto-riconoscimento e a un processo di legittimazione, una sorta di rivendicazione identitaria di fronte ad altri gruppi sociali; quando quel repertorio musicale, oramai secolarizzato e snaturato della sua funzione primaria, varcava non solo i confini fisici del proprio territorio di nascita, ma anche quelli linguistici, per andare incontro a nuove tendenze e nuovi gusti, si parlava di musica di consumo. Una musica fatta cioè per un pubblico di massa, per soddisfarne gli orizzonti di attesa e i gusti estetici, non più per rivendicare una propria identità culturale. In un’epoca di flussi culturali costanti e continui tutto ciò sembra perdere di senso, ma anche quando questa divaricazione era più netta e definita era in ogni caso sbagliato identificare la musica popolare come qualcosa di puro e veritiero, e quella di consumo come il male assoluto. Ancora oggi questa distinzione non deve essere discriminante, però bisogna averla chiara in mente, qualora ci si voglia ad esempio affacciare sulla scena rap romana.
Il rap in quanto fenomeno musicale non può essere scisso dal contesto popolare: come tutta la cultura hip-hop nasce negli anni Settanta a New York, nei ghetti urbani del South Bronx e di Harlem, dove le sanguinose faide tra gang di afroamericani e ispanici alimentavano una guerra fratricida tra gente disperata ed emarginata, nell’indifferenza della classe media bianca, e in un feroce contesto di classismo, razzismo, esclusione sociale. Fu la musica rap a salvare le giovani generazioni dalla violenza, grazie a un nuovo modo di stare insieme, prendere coscienza di sé, trasformando le gang in crew e le sparatorie in duelli canori per strada, a colpi di freestyle. Un deejay e produttore musicale di fama mondiale come è oggi Afrika Bambaataa fu il primo a far capire ai suoi fratelli neri che il vero nemico – oggetto di denuncia e odio nei testi delle canzoni rap – non era tra i palazzoni del Bronx ma casomai nell’Upper West Side.
Quello stesso linguaggio, con una chiara connotazione politica e una forte critica sociale, approda a Roma nell’universo dei centri sociali, alla fine degli anni Ottanta (ancora oggi, l’unica realtà nel contesto capitolino che elabori quotidianamente delle strategie di contrasto alle pratiche di gentrificazione o alla sempre più disastrosa emergenza abitativa). Nascono così le prime “posse”, proprio quando l’ideologia neoliberista inizia a divorare il mondo, che rivendicano per la musica di strada uno spazio autonomo di esistenza, senza assoggettarsi alle leggi di mercato. Nelle cantine occupate si comincia a elaborare l’alternativa a un mondo basato sullo sfruttamento e l’emarginazione, e le rivendicazioni politiche e sociali vengono affidate al rap. Si trattava quindi di una controcultura musicale che rivendicava il diritto a essere musica del popolo, e non musica d’intrattenimento, data in pasto al consumo e alla commercializzazione selvaggia.
Il rap a Roma
A Roma nasce la prima crew, Onda Rosse Posse, che si fa conoscere nell’ambente capitolino con il ritmo incalzante di Batti il tuo tempo; subito dopo sarebbero nati gli Isola Posse All Stars a Bologna e i 99 Posse a Napoli. Ma la scena capitolina era già permeata da rapper vagabondi e ribelli, che senza bisogno di nessun circuito ufficiale avevano iniziato a radunarsi sotto l’allora Galleria Colonna e sui larghi marciapiedi di Piazzale Flaminio, armati di un semplice ghetto blaster, un mangiacassette con aggiunta di microfono, per poter rappare improvvisando sopra la base registrata: è qui che troviamo per la prima volta i due rapper Danno e Beffa, che poi avrebbero dato vita ai Colle Der Fomento. In pochi anni la scena underground del rap romano si arricchisce di artisti poliedrici e combattivi: gli Onda Rosse Posse – che cambiano il loro nome in Assalti Frontali – Ice One, Colle der Fomento, Cor Veleno, Flaminio Maphia.
La svolta nella scena rap underground è rapida ma non indolore: molti cantanti iniziano a pensare alla propria musica non più come l’espressione di un disagio quotidiano e di una forte rivendicazione sociale, ma come un vero e proprio prodotto artistico: nel gennaio del 1994 esce un album dei Sangue Misto (crew bolognese), SxM, alla cui produzione partecipa l’ormai leggendario DJ Gruff, uno dei pionieri più sperimentali dell’hip hop italiano. Questo album segna un momento di svolta: il rap non è più solo un parlare incazzati sopra una base di tutto ciò che non va nella società, ma è una forma artistica di denuncia politica tra le più geniali e sovversive. Ancora oggi questo disco è considerato un punto di partenza imprescindibile per il rap italiano, ed è presente nella classifica dei cento album italiani più belli di sempre secondo la rivista americana Rolling Stone.
Il mercato e gli appetiti della musica di consumo non tardano molto a interessarsi del fenomeno: per quanto underground, il rap fa gola alla televisione, al cinema, ai produttori, che intendono trasformarlo in un genere di massa o quantomeno adatto al mercato mainstream. Il Rap di Jovanotti, canzone pubblicata per la prima volta nel 1992, è un manifesto del nuovo genere scritto per introdurvi le masse: Non sono un cantante / Faccio il rap, quella musica dura / Quella senza melodia, quella che fa paura, paura / Ma dove andremo a finire / Ma guarda un po’ cosa ci tocca sentire /E intanto mentre sto parlando il rap è entrato in Italia; a J-Ax degli Articolo 31 viene impedito di esibirsi sulla scena bolognese perché ritenuto un ‘venduto’ al profitto e alle logiche di mercato. La frattura tra la scena underground e quella mainstream si fa sempre più grande.
Se nel corso degli anni Novanta – e ovviamente anche nel nuovo secolo – la divisione tra i rapper pop (Fabri Fibra, Articolo 31, Neffa, per citarne solo alcuni) e quelli fedeli al valore militante della scena underground si fa sempre più evidente, ciò non significa, come scritto sopra, che si possa dividere gli artisti in ‘buoni’ e ‘cattivi’: la musica segue sempre la sua strada, le sue contaminazioni stilistiche ed espressive, che sono dettate anche dai mutamenti di gusto del pubblico, da nuove mode e nuovi linguaggi, non solo dall’avidità del mercato. È pur sempre un bene se un rapper (ma ha ancora senso questa definizione?) come Rocco Hunt abbia potuto denunciare l’orrore della sua terra violentata dai rifiuti tossici sul palcoscenico dell’Ariston, e anche se Piotta e Frankie Hi-Nrg sono andati in televisione non credo che nessuno possa definirli artisti snaturati che hanno smarrito il senso della loro sperimentazione (Fight da faida resta una delle canzoni più belle mai scritte nella storia del rap italiano).
Il rap a Roma
La scena rap romana è oggi piena di cantanti cui va stretta una definizione sotto una singola etichetta: dal duo di Carl Brave e Franco 126, che oggi ha preso strade autonome, a Chicoria, Amir, Grandi Numeri (ex Cor Veleno), Mostro, Coez, sino a Ultimo, Achille Lauro e molti altri. L’antica frattura tra scena underground e scena pop, tra prime e seconde generazioni, si è anche ricomposta grazie al deejay Fastcut, che ha prodotto i due album intitolati Dead Poets, dove accanto ai grandi nomi del passato ci sono tantissimi giovani artisti al loro esordio. La scorsa estate è stata organizzata proprio a Roma una “battle” tra diversi artisti, per decretare nuove entrate nella crew dei poeti estinti, in vista della pubblicazione del terzo album della serie.
Infine, anche la distinzione tra musica popolare e musica di consumo, nel contesto capitolino, sembra cadere del tutto grazie ad un’ipotetica discendenza – non del tutto peregrina – da un ben più antico prodotto della cultura musicale romana: lo stornello romanesco. Gli antichi duelli delle stornellate, infatti, condotti con un intento satirico e canzonatorio, e sempre con un linguaggio crudo e diretto, possono ricordare senza problemi le ‘battle’ a suon di rap, che avevano in origine – come nel caso degli stornellanti – il loro contesto di nascita e sviluppo nella strada. Anche le modalità esecutive, basate sull’improvvisazione e sulla centralità del testo e del ritmo, con poca importanza assegnata alla melodia, sono un ulteriore punto di contatto; inoltre, negli stornelli romani, come nelle canzoni rap, oggetto di denuncia sono il degrado della vita quotidiana, il cinismo e le ingiustizie del potere.
In una Roma ormai cosmopolita e meticcia, dove tutti i linguaggi musicali, rap compreso, sono frullati dentro un mix di esperienze, codici artistici, pratiche performative e modalità fruitive sempre più complesse e variegate, possiamo dire che il forte contatto con una cultura popolare da sempre “minore” e “underground” potrà assicurare, anche alla musica del prossimo decennio, una forte identità “popolare”, alternativa a quella “di consumo”, ben più standardizzata e anonima.
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