Intervista al cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, per 10 anni parroco di Santa Maria in Trastevere

Nato a Roma l’11 ottobre 1955, Sua Eminenza Matteo Zuppi si è laureato in Lettere e Filosofia all’Università di Roma La Sapienza. È stato vice parroco di Santa Maria in Trastevere dal 1981 al 2000 diventandone poi parroco fino al 2010. Dal rione si è trasferito in periferia, a Torre Angela, nella parrocchia dei Santi Simone Giuda Taddeo, una delle più popolose della diocesi romana. Nominato Vescovo nel 2012, tre anni più tardi è stato nominato nuovo arcivescovo di Bologna. Il 5 ottobre 2019 papa Francesco lo ha creato cardinale presbitero del titolo di Sant’Egidio in Trastevere.

“Quando penso a Trastevere, la prima cosa che mi viene in mente sono le persone che ho conosciuto nel corso dei tanti anni in cui sono stato a Santa Maria. Mi capita, camminando per le vie, di legare i luoghi a chi un tempo li abitava e li viveva. Spesso questi luoghi sono molto cambiati nel tempo e questo mi fa riflettere su come era il rione prima e come è diventato adesso. Non voglio compiere un’operazione nostalgia: è normale che la città e le stesse persone cambino, ma tutto questo mi porta inevitabilmente a rimettere insieme tanti pezzi della mia vita”.

Come è cambiata Trastevere rispetto a quegli anni?

“Tieni presente che io sono venuto a vivere nel rione nel 1976. Rispetto ad allora sono quasi del tutto scomparsi gli artigiani e quelle botteghe tipiche del tessuto sociale trasteverino. Molte di queste attività oggi si sono trasformate in locali legati alla ristorazione o alla somministrazione. Adesso ci sono più uffici, che all’epoca erano quasi assenti, e molte famiglie nel tempo hanno lasciato le loro case, che spesso si sono trasformate in B&B. Ecco, quello abitativo è uno degli aspetti più delicati attualmente, che merita di essere affrontato con grande attenzione. D’altra parte credo che non si sia ancora perduto quell’animo familiare che è sempre stato un tratto peculiare del luogo. Nonostante tutti questi profondi cambiamenti, sento ancora vivo quel sentimento e quella voglia di incontrarsi e conoscersi. Infondo, Trastevere riesce sempre a mantenere una dimensione molto umana”.

Quindi una comunità trasteverina esiste ancora. Perché è importante preservarla?

“È fondamentale. Se non esiste una comunità, un quartiere o una città diventano come un’area shopping di un aeroporto, perdono la loro anima. Il fatto che Roma e Trastevere siano cambiate è fisiologico, ma se si perde il senso di comunità e di rete sociale si corre un grave pericolo. Penso non solo alle famiglie, ma in particolare alle tante persone che, anche nel rione, vivono da sole e non hanno nessuno. Nel Centro storico sono oltre la metà i nuclei abitativi che sono composti da un’unica persona. Per questo è fondamentale mantenere una dimensione comunitaria, per allontanare la solitudine”.

Trastevere, anche storicamente, è sempre stato un luogo di accoglienza. Che valore ha oggi questa parola?

“L’accoglienza è qualcosa che ci consente di vivere bene nel presente e ci aiuta a capire il futuro. Trastevere è un simbolo di tutto ciò, perché nasce come il rione dell’accoglienza. Non è un caso che il porto della città si trovasse qui. È il luogo dove si sono insediate le prime comunità di religione ebraica e il quartiere dove c’erano più sinagoghe. Anche il cristianesimo romano è nato qui. Come forse è noto, Santa Maria rappresenta il primo luogo di culto cristiano aperto a Roma già nel II secolo, prima dell’editto di Costantino. Sorge su una taberna meritoria, una sorta di ricovero per militari in pensione, da cui un giorno miracolosamente iniziò a sgorgare dell’olio. Questo evento fu interpretato come l’indicazione divina sul luogo dove costruire la chiesa. Ma a prescindere da questi riferimenti di carattere storico, Trastevere ha sempre accolto le genti che venivano da fuori Roma, che con il passare del tempo hanno contribuito a formare la comunità trasteverina che conosciamo oggi. Tutto ciò sta a significare che senza accoglienza non c’è futuro”.

Nel 2019 ha scritto un libro dal titolo “Odierai il tuo prossimo come te stesso”. Ultimamente, anche a Trastevere, si avverte un senso di avversione, che a volte sfocia in odio, verso chi opera nel campo della solidarietà. Da dove nasce questo sentimento?

“Nasce dalla paura, dal fatto che ci sentiamo tutti più fragili e più soli e che il mondo ci sembra sempre più complicato e più minaccioso. Nasce da tanto individualismo, che ci porta a percepire come un fastidio o peggio come una minaccia chiunque provenga da un contesto esterno al nostro. C’è poi da dire che, nonostante in molti si sforzino ancora di aiutare gli altri, ultimamente la rete di solidarietà si è molto allentata. Bisogna rendere la solidarietà e l’accoglienza un dato caratteristico della nostra vita, non un “di più”. Dobbiamo mantenere questi valori al centro delle nostre vite e di quella del rione. Trastevere non può perdere questa qualifica. Essere solidali e accoglienti non consente solamente agli altri di vivere meglio, ma anche a noi stessi”.

Lei è stato per tanti anni la guida spirituale di Trastevere, ma lo è stato anche di una borgata come Torre Angela. Qual è la differenza principale tra i due luoghi?

“La differenza fondamentale è che a Torre Angela manca la piazza, mentre a Trastevere è pieno. Non parlo solo di piazza Santa Maria o di piazza San Cosimato, ma di moltissimi altri luoghi di incontro dove le persone e i loro mondi entrano in contatto tra loro. Penso a piazza San Calisto, con il suo bar, dove vecchi e giovani trasteverini trascorrono il tempo insieme, e dove si trovano allo stesso tavolo umanità totalmente diverse che condividono lo stesso spazio. Tutto questo a Torre angela non c’era. Il luogo aperto più grande si trova di fronte alla parrocchia, che è costruita su una strada. Questo rende difficile creare una comunità, anche in senso fisico, perché mancano i posti dove potersi incontrare. La piazza è fondamentale perché ci aiuta a non rimanere soli, a non vivere come se fossimo delle isole”.

Questo ultimo anno e mezzo è stato particolarmente difficile per la pandemia e per quello che ha comportato. Quale insegnamento si può trarre da tutto ciò?

“Il primo insegnamento è quello di non dimenticare. Il problema non è voltare pagina rispetto a ciò che è accaduto, ma scriverne una nuova creando qualcosa di diverso, di migliore. Bisogna fare tesoro delle debolezze, delle sofferenze e dell’isolamento che abbiamo affrontato. La pandemia ha aperto tanti interrogativi collettivi sulla nostra società, in particolare sul troppo precariato e la poca stabilità nel mondo del lavoro o sulla condizione di solitudine degli anziani. È venuto alla luce come le persone non siano solamente oggetti o meri consumatori di beni materiali, ma soprattutto anime, che hanno bisogno di ritrovare una dimensione spirituale. Le risposte a questa situazione non devono essere puramente funzionalistiche, ma devono rivolgersi alla collettività e in particolare a chi è più fragile e bisognoso”.

Anche lei ha contratto il Covid. Come ha vissuto questa esperienza?

“Bene, sono stato asintomatico. Quasi mi vergogno rispetto a tante persone che non ce l’hanno fatta o che hanno subito gravi conseguenze. La vera fatica è stata quella di non poter avere una relazione diretta con le persone e di dover vivere in uno stato di isolamento. Fortunatamente la tecnologia ha garantito la comunicazione costante, seppur a distanza, ma l’isolamento fisico è una condizione pesante. Non ci abitueremo mai a non incontrare gli altri e a potersi vedere solo attraverso uno schermo di un telefono o un monitor di un computer. Avremo sempre bisogno del contatto fisico”.

Di Gianluigi Spinaci

Illustrazione di Titti Fruhwirth