Giulia Ananìa, provocatrice sentimentale che si vede, si legge e si ascolta
Ho conosciuto Giulia Ananìa nel corso dell’IPER, il festival delle periferie. L’artista ha toccato tutte le 12 borgate ufficiali di Roma, con i quartieri periferici annessi. Una rassegna durata 24 ore trascorsa intervistando realtà, artisti e persone incontrate strada facendo. Le domande hanno affrontato le grandi questioni della vita: che cosa è per te l’Amore? Dove vai a fa la spesa? Quanto sei periferico? ‘Ndo’ abiti?
Ma perché, Riccà, ci stai a raccontà sta cosa? Prima di tutto perché è un’iniziativa a cui ho creduto: conoscere la città nella sua complessità e far comunicare ogni parte di essa tra loro è determinante per uscire dall’isolamento e dalla diffidenza. Poi, perché da adolescente mi è toccata questa prova di ubiquità faticosissima sballottato da Monteverde a Centocelle, dall’Appio latino al Trieste Salario, dal Testaccio al Tiburtino e via dicendo, capendo da subito che se Roma la richiami all’ordine lei ti respinge.
Tutt’altro discorso, invece, è quello di metterla in comunicazione con tutte le sue parti. Dopo tutto, il muretto di piazza dei Gerani sarà lo stesso di piazza Giovenale, o no?
E RomaBombay, disco di Giulia uscito nel 2017 per l’etichetta Bassa Fedeltà, sottolinea il tema discusso fino a ora: “L’unica città possibile è la città ideale, sognata dal nome ROMABOMBAY. Vorrei spalancare le braccia e i palcoscenici alle comunità di stranieri che qui vivono. Propongo soluzioni molto semplici e pratiche per aprire alla partecipazione attiva multiculturale. Per esempio, il coinvolgimento di interpreti simultanei per visite guidate e spettacoli, con la sottotitolazione di mostre e proiezioni cinematografiche nelle varie lingue della Roma contemporanea”.
In sostanza, quello che propone Giulia è un grande progetto urbanistico generoso e omnicomprensivo. Pensare poetico, scrivere testi musicale appellandosi alle muse è ardimentoso. Non esiste talento senza esercizio e la poesia di Giulia viene da lontano.
“Ho iniziato a comporre da subito, praticamente da quando ho imparato a scrivere. Mio papà Vincenzo era un amante della poesia e un poeta. Dirigeva una rivista molto ben fatta di poesia dal mondo. Sono cresciuta tra i numeri di Topolino e le favole di Gianni Rodari, ma anche tra tanti versi. Leopardi, Dante, Amelia Rosselli, Cesare Pavese, i poeti maledetti, Sandro Penna, Pier Paolo Pasolini. E anche tanta poesia dialettale, zingara, creola e mediterranea. Può sembrare impegnativo caricare un bambino con la poesia piuttosto che fargli fare altro, ma invece è l’opposto della pesantezza. La poesia è uno strumento per alleggerirsi. Ce la fanno passare molto più complessa e pesante di quello che realmente è: un bambino non può crescere male tra bei dischi così come tra bei versi. Ho avuto questa fortuna che mi ha resa molto precoce e libera”.
Nella canzone popolare l’amore di Giulia è tutto incentrato sulla figura di Gabriella Ferri: “Una donna in grado di sfidare l’arte”, l’ha definita, aggiungendo che “la grande forza di Gabriella, è che è l’unica hippy che abbiamo avuto in Italia. Un’artista totale. Sul palco, così come nella vita, per lei non c’era differenza! Vera, sia di strada sia di lustrini. Ironica e dolente come erano le grandi dive di una volta, che non sai quanto mi mancano. Gabriella ha avuto il coraggio quando fu al Bagaglino, la trasmissione più commerciale della televisione italiana, di presentarsi con la canzone Sempre, un trattato di filosofia sulla vita, vestita da pagliaccio tra l’altro giocando con un immaginario sospeso tra genere maschile e femminile”.
Nel 2020, per Red Star Press, Giulia pubblica L’amore è un accollo. Poesie (Quasi) romantiche. Una provocatrice sentimentale che si vede, si sente e si legge. Tra le pagine ho trovato Il Santo Bar Callisto, poesia accompagnata anche da un video disponibile su Vimeo e sulla pagina Instagram del Ventriloco, elogio a tutti i santi del Rione, tra cui il bar che conosciamo.
Trastevere continua a recitare un ruolo fondamentale nella sua vita così come in quella di tutti noi.
Ieri come oggi l’amore del rione non è svanito, anche se bisogna amarlo veramente a tutto spiano per accettare le contraddizioni che già da tempo lo inquinano: ristoranti turistici, i cinema e i luoghi storici che arrancano sotto la scure della gentrification, quando non sono già chiusi.
“Amo molto Trastevere, ci passo tutti i giorni. Non amo quello che gli stanno facendo e certamente vederlo abbandonato al niente fa male. Trastevere ormai è menata da chiunque, comprata per due soldi dalla mafia, fracassata di bottiglie dal turismo di massa e da scimmie urlanti che si scopano i vicoli; mi fa malissimo. Ma continuo ad amarla e anche a seminarla di eventi e iniziative culturali, ostinatamente. Perché Trastevere deve essere anche cultura e non la possiamo abbandonare. Nel mio libro L’Amore è un accollo c’ è la poesia dedicata al Santo Bar Callisto che riassume bene quale Trastevere amo. La mia Trastevere è ricca per tutti, generosa, quella più pudica delle parti di via della Luce, del biscottificio Innocenti, degli illustratori di via Bertani, la vietta dove per un periodo ho avuto il mio studio e dove ora stanno Tic edizioni e Il Ventriloco, la Trastevere del gelato celestiale di Otaleg come quella del cono a un euro del Callisto con lo zabaione mantecato ancora da Marcellino, dei tossichelli, dei barboni che si coccolano le strade massacrate da turisti e barbari, della Comunità di Sant’ Egidio che sfama e abbraccia, di Pasquale il cagnone melanconico e del primo ristorante cinese della capitale, Ci Lin. La Trastevere dell’Orto botanico, un mio ufficio di baci e canzoni, dove visse una delle prime donne queer della storia: la regina Cristina di Svezia. La Trastevere pattinatrice di lacrime. A Trastevere, nonostante tutto, non si è mai tristi”.
Visto il suo animo schietto e sincero, gli chiedo per concludere che cos’è per lei l’amore: “L’ amore è l’unica possibilità che abbiamo di salvarci. Comunque, negli ultimi anni non mi sono più innamorata. E a momenti ce morivo”.
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