PORTAPORTESE

La sera prima avevo bevuto con gusto, quanto bastava per sopportare tutte le turbe dei clienti del locale. Non smaltivo più lo stress giornaliero e tutti gli stati d’animo a cui ero esposto. Alle volte ero un bravo psicologo, ricercatissimo dai migliori ubriaconi, altre invece una spalla su cui piangere. A fine giornata piuttosto che cercare altre relazioni, mi rilassavo al silenzio della notte, seduto nella mia stanza fumavo con soddisfazione le stesse sigarette con cui avevo cominciato quindici anni fa. La domenica mi vedevi a Porta Portese. Non importava se il tempo era bello oppure tirava burrasca. Ero un habitué, conosciuto da tutti. Manuel, il rigattiere originario del Bangladesh, mi ricordava di quando a quattro anni mi aveva fatto da babysitter, nel periodo in cui avevo abitato a Monteverde, poi in fondo, dietro alla piazza, ci stava Omero con il suo banco delle cravatte, artefice, così dice, di avermi insegnato a camminare in via dei Leutari. Non ero mai stato un compratore compulsivo e spesso tornavo a casa senza aver preso nulla. Credevo che prima o poi le cose che cercavo sarebbero venute da me come un premio, un riconoscimento alla perseveranza di tutte le domeniche che avevo passato al mercato, mischiandomi tra la gente, perdendomi in quel dedalo di opportunità. Il bar di via Angelo Bargoni di Stravecchia Romagna, Peroni e toast. Da notte fonda fino al giorno dopo era un posto malfrequentato, anche se la gentilezza della ragazza dietro al banco e tutto il resto della squadra riuscivano a scaldare il cuore anche di quei farabutti che un cuore non pensavano di avercelo. Avevo ordinato un caffè da bere subito, un tramezzino da mangiare dopo e un’acqua leggermente frizzante nel mentre. Assaporando quella finta maionese e quel cotto di second’ordine ero soddisfatto e nulla poteva rovinarmi quel momento, credevo, neanche quella coppia seduta accanto a me, un signore siciliano ed un ragazzo nordafricano che parlavano di quel “fregnone” che, in ogni caso, se l’era meritate… Feci per prendere un fazzoletto dal dispenser sul bancone, dovetti chiedere permesso per riuscirci. Una figura di spalle dalle dimensioni titaniche si voltò, guardandomi con l’aria di chi era stato disturbato. Il suo odore acido, un misto fritto aglio ed olio per motori mi si era infilato nel naso e lungo tutte le narici, risvegliando qualcosa di orrendo. L’uomo con i suoi quasi due metri di altezza, sulla cinquantina, aveva un paio di occhi piccoli, perfidi e tenebrosi. L’iride e la pupilla formavano la stessa unica sfera nera. Quell’Omone continuava a guardarmi con aria di sfida, mostrando i denti pieni di nicotina sotto il labbro superiore, mentre non riuscivo più a muovermi ed il tramezzino era ormai in terra. Mi era cascato per la sorpresa. Non riuscendo a dare altri input oltre che fissarlo, l’Omone allora girò i tacchi uscendo dal bar assieme all’amico, portandosi via quell’aria malsana di chi la stava per combinare grossa. Le cose non si erano messe affatto bene e tutta la spensieratezza di un attimo prima era svanita via per sempre. -Devo seguirlo! – Ero di nuovo fuori, sgomitando tra i banchi cercando di non perderlo di vista, quando iniziai a ricordare tutta la storia…

 

L’OMONE

Quel giorno faceva caldo, il primo dopo l’inverno, e sugli alberi stavano già sbocciando alcune gemme. Da quando avevano inaugurato il tram 8 l’anno precedente, era diventato davvero comodo raggiungere da Monteverde, zona Largo Ravizza, via degli Stradivari a ponte Testaccio. Ero seduto accanto al finestrino al centro della carrozza. Alla fermata successiva, quella del san Camillo, erano salite tantissime persone riempendo quasi tutti i vagoni. Al di là del vetro, oltre il marciapiede sul muretto di cinta dell’ospedale ci stava il solito gruppo di tossici in attesa delle caramelle. Me lo aveva detto la mamma. All’improvviso, un signore alto quasi due metri si mise accanto a me, avvicinando pesantemente la sua zona intima verso il mio volto. All’inizio non avevo capito.

Pensavo fosse dovuto agli sballottolamenti continui della carrozza, invece quell’uomo gigantesco voleva una sola cosa e anche piuttosto preziosa. Si presentava abbastanza casual con dei pantaloni beige, delle scarpe di cuoio ed un maglione non di primissima mano. Al collo portava una di quelle sciarpe colorate sul rosso che andavano negli anni ‘90. I capelli erano corti, la pelle olivastra e rovinata sulle guance per via di vecchi segni lasciati dall’acne. Anche questo mi ricorda gli anni ‘90. Emanava un odore terribile, un misto fritto aglio ed olio per motori, ma la cosa peggiore erano i suoi occhi: due piccole sfere nere, dove la pupilla e l’iride erano un tutt’uno e li usava per scrutarmi al dettaglio ogni parte del corpo. Stava scegliendo il suo pezzo preferito, come si fa quando si sceglie la carne dal macellaio. Era una bestia pericolosa e stava fiutando la mia paura. Ero paralizzato e nessuno nel tram stracolmo di gente si era accorto del pericolo che stavo correndo, mentre era alla terza, quarta volta che l’Omone mi chiedeva come mi chiamavo.

– Mi chiamo Stefano – dissi. Ovviamente non era il mio vero nome, ma rispondendogli così, consegnandogliene un altro, sentivo di aver messo almeno la mia identità al sicuro da quella bestia.

Volevo gridare. La mano del gigante aveva lasciato una striscia di unto sulla maniglia del sedile accanto a me, quando l’aveva mossa per grattarsi i pantaloni all’altezza dei genitali, quel movimento aveva fatto aumentare quell’odore tremendo che si era infilato dentro di me. Voleva che andassi con lui a prendere un gelato -Poi ci divertiremo, vedrai…- aveva aggiunto con un accento che ricordava quello mediterraneo del nord Africa. L’8 aveva superato la fermata di Ponte Bianco e ne mancavano soltanto due prima di scendere. Scappare era diventato imprescindibile. Quando le porte si aprirono a stazione Trastevere, l’Omone mi sbarrava ancora la strada, ma appena vidi la via di fuga schizzai, tuffandomi dentro la folla in uscita. Senza voltarmi avevo già attraversato le strisce pedonali e poi quelle successive fino al marciapiede del bar Baffo. A quel punto ero su viale Trastevere e, ricominciando a respirare, via degli Stradivari non mi sembrava più così lontana. – Stefano fermati, resta ancora un po’ con me, dai! – L’Omone era riuscito a seguirmi, camminando a soltanto una decina di metri da me, strillava. Girando lo sguardo verso di lui per vedere a che punto fosse, mi accorsi che il pervertito trascinava la gamba in avanti e poi indietro come fosse di legno, zoppicando vistosamente. Allungai il passo. Avevo quei suoi perfidi occhi addosso che cercavano di spingermi verso di lui. Prima del Blockbuster svoltai a destra per via Filippo Chiappini e giù di corsa passando per Via Crescenzo del Monte a Piazza Ettore Rolli. A quel punto mi girai e lui non c’era. Avevo ancora nelle orecchie la sua voce che gridava il mio finto nome.

 

CARTEGGIO

Quel ricordo era rimasto sepolto dentro Riccardo fino ad oggi e di certo non avrebbe mai sognato, un giorno, di rivedere l’Omone davanti a lui. Guardandosi intorno si era reso conto che per tutti questi anni Porta Portese lo aveva preparato a questa giornata e adesso in cuor suo sapeva cosa fare. Infilatosi tra i banchi all’inseguimento di quel depravato, il riflesso della sua immagine capovolta si rifrangeva sull’asfalto bagnato lungo tutto il pedinamento. L’Omone proseguiva davanti a Riccardo, passando da piazza Ippolito Nievo giù verso la Portuense trascinando la gamba, sorretto da un bastone. In quell’istante la pioggia stava cominciando a bagnare tutte le riviste del banco di Manuel, mentre Omero poco più avanti con il lavoro, ritirava al sicuro le cravatte in esposizione. Riccardo si stava infilando il cappotto cerato appena acquistato. Una volta chiusa la lampo della giacca, questa gli vestiva perfettamente da sotto al naso fino ai polpacci facendogli emergere soltanto gli occhi. Vestito di ricordi avanzava braccando quell’essere indecente oltre il portico dove senza tetto e tossici erano al riparo. Ironia della sorte, dopo aver superato il piazzale, l’Omone stava seguendo una coppia di bambini verso via Crescenzo dal Monte. Una raffica violenta rovesciò il banco alla sua sinistra. “Ragazzo, stai a cavallo dell’inferno!” strillò un uomo seduto accanto ai resti del Molino Nicolai; Er Titano rideva dal suo antro, al riparo dalla pioggia sventolava una bottiglia di sambuca, sfidando la tempesta e gli dèi. Dopo quell’avvertimento, il ragazzo avanzava verso il suo obiettivo stringendo l’oggetto trovato nella tasca della giacca, da cui sembrava trarre tutta la forza necessaria per portare a termine il suo scopo. Guardandosi allo specchio di una vetrina, confuso e sbalordito allo stesso tempo, non riuscì più a riconoscersi. La medaglia era stata rovesciata e un’oscura figura aveva preso il suo posto. I due ragazzini, girato l’angolo e fiutato il pericolo, se l’erano svignata mentre l’Omone, come venti anni prima, era rimasto a bocca asciutta li al centro della strada. Ma alle sue spalle e sotto il diluvio, avanzava una figura oscura vestita di nero che gli strillava: “sono Stefano, ti ricordi di me?!?” In quel preciso istante, mentre si era girato per vedere chi fosse, un lampo tagliò in due il cielo e quando scoppiò un tuono che rivoltò la terrà, la figura oscura si era avventata su di lui facendolo cadere. L’Omone aveva cercato di difendersi come poteva ma il suo avversario spingeva l’arma verso i suoi occhi. Tutta l’arroganza, la spocchia e la viltà dello stupratore sembrò scivolargli via dal volto come lacrime nella pioggia. Fu proprio nel momento in cui quegli occhietti infami stavano chiedendo pietà, che le punte di un compasso da carteggio arrugginito bucarono le pupille dell’Omone affondando il colpo fino al cervello. L’uomo fu ritrovato in una pozza di sangue e per portare via la salma ci vollero ben tre persone vista la stazza, mentre del suo assassino si erano perse completamente le tracce.

Qualcuno sosteneva di aver sentito l’urlo dell’Omone, altri invece le risate isteriche del suo assassino. Successivamente un passante allertato dal colore rosso della fontana in piazza Ettore Rolli aveva avvertito gli investigatori. Al suo interno, immersa nel sangue, fu ritrovato un enorme compasso da Carteggio. L’Omone e Riccardo ero scomparsi per sempre ed ognuno aveva ricevuto ciò che si era meritato. Ancora oggi in via Crescenzo dal Monte qualcuno giura di aver visto un oscuro figuro aggirarsi in quella zona.

 

FINE

 

Di Riccardo Davoli

Illustrato da Wuarky

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