QUARTIERI DAL MONDO

Essere turista fotoamatrice a Rio de Janeiro e andarsene in giro con una Nikon D7100 nuova di zecca significa, oltre al fatto di essere imprudenti, doversi cimentare con dei soggetti fotografici quasi obbligatori: dal Cristo Redentor al Pan di Zucchero, dal marciapiede di Copacabana al tramonto dall’Arpoador. Ma un reportage davvero completo – la fotografa protagonista di questa storia lo sa, avendo studiato prima della partenza – non potrà non includere uno scatto di quello che è considerato il Colosseo della capitale fluminense, ovvero l’antico acquedotto del quartiere della Lapa: un imponente sistema di 42 archi doppi progettato per trasportare l’acqua del fiume Carioca fino al centro della città, costruito nel 1750 da manodopera schiava africana e indigena. La nostra fotografa, presuntuosa come tutti i principianti, non si accontenterà di un’immagine che si limiti ad attestare il suo passaggio davanti al bianco monumento, ne vorrà invece una che sia anche originale: è per questo che non le basterà aspettare il transito, sopra gli archi, del tram che dal 1896 collega la Lapa al quartiere collinare di Santa Teresa, ma pretenderà che un abitante delle circostanti favelas – possibilmente in bermuda, berretto e infradito – entri distrattamente nell’inquadratura. Ciò che neanche la più ottimista delle fotografe oserebbe sperare è di ritrovarsi davanti all’obiettivo un prototipo di quella categoria umana che più di ogni altra caratterizza la città di Rio in generale e il quartiere della Lapa in particolare: quella del malandro. Ozioso e furbo, il malandro non ha bisogno di lavorare, perché vive di espedienti. Il malandro, benché malandro e in quanto malandro, è irresistibilmente seduttore. Lo riconosci, il malandro, da com’è vestito: camicia di seta, catena d’oro, cappello panama, bretelle e coltello a serramanico.

Era un malandro con tutte le carte in regola quello in cui mi capitava d’imbattermi (sì, perché la fortunata fotoamatrice di questa storia sono io) sotto gli archi della Lapa in quell’agosto del 2016: bello, dannato e di bianco vestito. Cominciai a fotografarlo, prima da lontano, sfruttando tutti i centocinque millimetri del mio zoom, poi sempre più da vicino. Attraversando gli archi e cambiando angolazione, avrei scoperto di non essere l’unica fotografa intorno a quel soggetto, e che gli altri fotografi, diversamente da me, erano dei professionisti, che potevano contare su assistenti, costumiste e truccatrici. Il malandro, dunque, non era un malandro, era un modello vestito da malandro, e quella non era una scena di vita quotidiana carioca bensì un set fotografico con tanto di troupe all’opera. Ciò che azzerava il valore documentaristico dei miei scatti accendeva, al contempo, la mia curiosità: chi erano quelle persone? Perché erano lì? Che genere di shooting era quello? L’arte di ficcare il naso, perfezionata in anni di esercizio, unita alla conoscenza del portoghese mi permisero di trovare presto una risposta alle mie domande, e di scoprire qualcosa della Lapa che mai, altrimenti, avrei scoperto.

La troupe era quella del gruppo Infinitö Produções, diretta da Alberto Sena. Il titolo del progetto artistico, da un’idea di Paulo Eduardo, era Da malandragem ao desbunde, che in italiano potrebbe essere reso, con un’espressione assai meno incisiva, come “Dall’arte di arrangiarsi all’arte di disinibirsi”; il sostantivo desbunde deriva, infatti, dal verbo desbundar, che indica la capacità di divertirsi perdendo il controllo e la compostezza. Il modello, l’infinitamente sexy Cleber Henrique, vestiva i panni non di un malandro qualsiasi, ma del malandro per eccellenza: Madame Satã, all’anagrafe João Francisco dos Santos, leggendaria figura della cultura carioca del primo Novecento. Buttafuori nei bordelli della Lapa, dove divenne famoso per i colpi di capoeira con cui difendeva le prostitute dai clienti violenti, Madame Satã fu anche showman, performer e drag queen ante litteram: amava infatti imitare le grandi stelle femminili dell’epoca, tra le quali sognava di brillare. Come suggerito dal suo nome d’arte, la peculiarità della “Signora Satana” era l’ambiguità: Madame Satã era insieme lady e demonio, gay e macho, effeminato e virile, delicato e aggressivo. Si racconta che dicesse di sé: “Sono stato alcune volte uomo e altre volte frocio. Mi è piaciuto di più essere frocio.”

Artista e assassino, sciupafemmine e sciupamaschi, difensore degli oppressi impietoso con gli oppressori, Madame Satã riuniva in sé le caratteristiche del quartiere in cui trascorse la sua avventurosa esistenza: allegria e violenza, mondanità e miseria, bellezza e degrado. In origine area residenziale della Rio benestante, la Lapa cadde rovinosamente in declino quando, all’inizio del Novecento, i suoi facoltosi abitanti si trasferirono nelle zone a sud e a nord del centro, dando così il via all’occupazione delle loro eleganti dimore da parte delle fasce meno abbienti della popolazione. A metà del XX secolo la Lapa si era già trasformata nel quartiere malfamato descritto da Brasil Gerson nel suo Storia delle vie di Rio de Janeiro (1954): “quartiere divenuto celebre (…) per la sua vita notturna dissoluta, quartiere di cabaret e postriboli a buon mercato, di malandros, di giocatori d’azzardo, di bulli e invertiti, del trottoir delle povere donne cosiddette perdute”. Come ogni Montmartre che si rispetti, anche quella carioca non poteva non attrarre gli artisti e gli intellettuali dell’epoca, che divennero presto i vicini di casa delle prostitute e dei loro sfruttatori: tra gli abitanti illustri della Lapa si ricordano i grandi scrittori Machado de Assis, Jorge Amado, Lima Barreto e Manoel Bandeira, il compositore Heitor Villa-Lobos, l’attrice Carmen Miranda. Negli anni Ottanta e Novanta l’identificazione della Lapa come cuore pulsante della vita notturna carioca, non più solo per il sesso a pagamento, fu rafforzata da alcuni importanti interventi, come il trasferimento nella piazza antistante l’acquedotto del celebre Circo Voador (palco sul quale si sono esibiti alcuni tra i più importanti nomi della scena musicale brasiliana, tra cui Chico Barque, Caetano Veloso e Gilberto Gil) e, soprattutto, la ristrutturazione delle antiche villette, che passarono ad ospitare, oltre ai numerosissimi bar, ai ristoranti e alle discoteche, le rodas de samba, contribuendo così all’espansione del movimento di valorizzazione del genere musicale come patrimonio immateriale della cultura nazionale. Nel 2005 la vocazione residenziale del quartiere è stata oggetto di un tentativo di recupero da parte del movimento Eu sou da Lapa (“Io sono della Lapa”), il cui manifesto recitava: “Mentre il Corcovado e il Pan di Zucchero sono le immagini-simbolo di Rio de Janeiro negli altri stati della federazione e all’estero, la Lapa rappresenta la principale icona della città per il carioca autentico. Il quartiere è quanto di più carioca si possa immaginare: unisce la bohème più autentica all’informalità propria dei luoghi di mare, oltre a possedere il carattere pittoresco di una città dell’entroterra, pur situandosi nel centro nevralgico di Rio de Janeiro. Si trova vicino a tutto: alla spiaggia, alla foresta, al corso Rio Branco, alla Zona Sud e alla Zona Nord, a Niterói. Vicino al carioca.” Ciò che il manifesto, per ovvie ragioni, doveva astenersi dal menzionare è che la Lapa “è quanto di più carioca si possa immaginare” anche per quegli aspetti che fanno della cidade maravilhosa un luogo tutt’altro che ameno: violenza, traffico di droga, furti e scippi a mano armata. Fattori che hanno cominciato, negli ultimi anni, a scoraggiare i frequentatori carioca, conducendo molte attività commerciali alla chiusura e altre, che sopravvivono grazie al persistente flusso di turisti, alla riduzione degli orari e dei prezzi. È evidente come qualsiasi sforzo di rivitalizzazione della Lapa non possa prescindere da politiche pubbliche di sicurezza e di inclusione sociale.

di Manuela Lunati

Illustrato da Martina Manna

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