Io sotto a quel Lampione ci sarò passato, non so, almeno, e dico almeno, diecimila volte. Senza esagerare. Saranno trent’anni che vivo qui e quel Lampione, aimè bisogna ammetterlo, stava già lì. È più vecchio di me quel Lampione. Più autoctono di me, quasi quasi.

Non mi aveva mai dato problemi, però mi aveva sempre incuriosito parecchio. Quando ero piccolo mi affascinava perché lo vedevo così alto e imponente, era un’istituzione. Mi metteva sicurezza. Lo immaginavo come un’istituzione militare. Serio e puntuale. Cascasse il mondo, quello, al tramontare del sole, clic, accendeva la luce e cominciava il suo turno. Impeccabile, sempre, per tanti anni. Si vede che a quei tempi anche lui era giovane. Oh, era impressionante, non ne sbagliava una. Un orologio svizzero. Io lo osservavo, chissà che non si fosse scordato una volta, chissà che non si fosse inceppato: sarebbe stato un evento. Era posizionato all’incirca a metà di un lungo viale alberato che si dispiegava in discesa e si trovava proprio di fronte al portone di casa mia, anche se leggermente defilato sulla sinistra. Sul viale ce ne erano tanti di lampioni, ma quello era l’unico che non aveva un corrispettivo lampione sulla parte opposta del marciapiede. Crescendo, forse si era stancato, o forse si era rincoglionito, cominciò a funzionare solo ogni tanto, fino a spegnersi definitivamente. Mi metteva tristezza, e lo guardavo ogni volta speranzoso che ritrovasse il suo vigore e la voglia di rimboccarsi le maniche e mettersi a lavoro. Ma nulla. Non sentiva ragioni. Non gli interessava neanche un po’. Era andato, ormai. Mi faceva pena e lo guardavo con aria compassionevole, finché non mi dimenticai di lui.

La mia vita da comune essere umano andava avanti, fra uno studio e un lavoro, totalmente incerta. Solo una costante: quella casa, quella via alberata, quel Lampione. Io non so se fu perché si accorse che mi ero completamente dimenticato di lui, o perché non dimostravo il minimo interesse nei suoi confronti. Ma insomma mi doveva pur capire. Io avevo un’infinità di cose per la testa. E non ero tranquillo. Dovevo portare avanti i miei lavoretti per pagare l’affitto e poi il mio sogno, diventare uno scrittore. Avevo in mente tutta una serie di personaggi, di possibili storie, e non facevo altro che metterli su carta. Sta di fatto che quel Lampione, forse notando la mia distrazione, forse soltanto per farsi due risate in vecchiaia, aveva cominciato a burlarsi di me. Ogni volta che passavo quello si metteva a lampeggiare a intermittenza. Mi sembrava impossibile, dopo anni di inattività. Non gli diedi troppa importanza ma il fatto diventò una costante. Se io passavo quello mi si accendeva alle spalle, solo per un attimo. Solo per un secondo. Se lo guardavo, nulla. Spento. Buio. Insomma, era strano. Dopo un paio di settimane in cui ogni giorno, anche con la luce, questo gioco andava avanti, cominciai a spiarlo per vedere se facesse la stessa cosa anche con gli altri passanti: nulla, non faceva nulla. Ce la doveva avere proprio con me. Cercai di controllarmi, di parlarne col dottore, ma non ci fu nulla da fare. Quel Lampione aveva ripreso vita, e ce l’aveva con me. Fui indifferente, ma con l’occhio sempre vigile, per un po’, finché non decisi di prendere la situazione di petto. Quel Lampione m’aveva proprio stancato. Così un giorno andai da lui e guardandolo nella palla della lampada gli feci: Lampione tu m’hai proprio rotto er cazzo. Quello però se ne rimase lì moggio moggio, spento, a fissarmi con quel suo occhio da pesce lesso che mi fece incazzare ancor di più. Comunque me ne andai, deciso che era proprio uno stupido Lampione e c’era poco da fare. Quando mi girai per andar via ebbi l’impressione che di nuovo lampeggiasse, una o forse due volte, mi girai ma era spento. Me ne andai ancor più sospettoso. Quel Lampione non me la contava giusta. Da allora lo tampinai e lo spiai sempre di più. Mica me la facevo fare sotto i baffi, e per di più da uno che manco riusciva a stare acceso tutto il giorno. Quando lo guardavo, però, era sempre spento. Mai una volta che mi si sia accesso in faccia. Figurati, c’aveva tutta l’aria d’un Lampione vigliacco. Il pensiero di lui che mi rideva dietro, che mi lampeggiava ogni volta che gli voltavo le spalle o che passavo distrattamente nella sua zona, beh quel pensiero mi rompeva proprio le scatole. Figurati tu se io proprio lì dietro casa ci dovevo avere ‘sto prepotente di un Lampione che si prendeva gioco di me. E figurati se non rideva poi insieme a tutti i suoi amici lampioni. Già me li immaginavo, lì a sghignazzare: “C’è cascato di nuovo”, “Certo che è proprio un pollo”, e giù a ridere e a scambiarsi gomitate e altri cenni di intesa, occhiolini luminosi e tutte quelle cose che fanno i lampioni in comitiva. E io il loro zimbello. Mannaggia, proprio a me doveva capitare. Ormai me lo sognavo la notte, coi suoi lampeggiamenti intermittenti e perculatori. Maledetto Lampione.

Inutile chiedere consiglio ad amici e parenti, questa era una questione fra me e lui, pensai. Poi però capii che quello non voleva neanche giocare alla pari. Quello stupido Lampione aveva coinvolto in un primo momento pure il lampione a fianco, sullo stesso marciapiede, così che quando mi giravo per cogliere l’infame in fallo, ecco alle mie spalle un’altra luce intermittente. La prima volta fui spaesato. Per un attimo credetti pure di averlo beccato. Ma non era stato lui, quello se ne era sempre stato lì, moggio moggio, spento come non mai. La cosa si faceva grossa, ma a dire il vero ancora non sapevo quanto. In un secondo momento infatti pure gli altri lampioni s’erano accodati al gioco e così su tutta la via, i lampioni apparentemente non funzionanti, non appena passavo, mi spernacchiavano dietro quelle loro luci intermittenti. E poi giù ancora a ridere e a scambiarsi cenni d’intesa. Figurati, come se la ridevano alle mie spalle.

Ma io lo sapevo che tutto proveniva da quel lurido Lampione che mi tormentava da mesi. Li aveva messi tutti d’accordo. Faceva il gradasso, facile da lassù. Tornai da lui: Senti mo m’hai stufato davvero. Me dici che vòi da me? Quello mi guardò come sempre dall’alto in basso, serafico, quasi severo. Ma io lo sapevo che sotto i baffi se la rideva e con lui tutti gli altri. Col tempo divenne una situazione insostenibile. Il mio passaggio era una continua pernacchia luminosa. Sempre, rigorosamente, alle mie spalle. Ormai era come se me lo facessero in faccia tanto erano spudorati ed io mi sentivo tormentato. Il Lampione era tornato una costante fra i miei pensieri. Come quando ero piccolo, che quasi lo salutavo col saluto militare, che lo rispettavo. Per me quel Lampione era il Campidoglio, era Palazzo Chigi, era la NATO. Qualche mese prima avrei giurato che fosse soltanto diventato un vecchio rincoglionito che mi faceva le pernacchie alle spalle. Certo! Uno di quei vecchi che fischia dietro alle ragazzine nonostante non gli si alzi più da vent’anni e che poi si pavoneggia coi colleghi del tresette al bar sotto casa.

Ma quello era di più. Quello ce l’aveva con me, quello era un mostro. Insistente, ripetitivo, sempre presente. Non potevo più uscire di casa e quando ne uscivo non potevo rientrare. Quel maledetto lampione non si smuoveva da lì e rideva di me, mi giudicava e non la smetteva mai. Mi rifugiai dentro casa. Non vidi più nessuno, a meno che non mi venissero a trovare. Per i primi giorni non me ne accorsi, forse perché non mi ero neanche mai affacciato, ma poi lo vidi. Il Lampione si era girato verso le mie finestre e mi guardava dritto in casa, non abbassava manco più lo sguardo e mi guardava, mi guardava e mi guardava. Se gli davo le spalle, si accendeva. Aveva quella bocca enorme, scura e sempre aperta. Rideva di me, ma a forza di ridere la bocca era diventata un cratere pronto a mangiarmi. Mi ci perdevo dentro e c’era il buio, il buio più totale. Ne uscivo, certe volte ne uscivo, e mi giravo ma quello subito si illuminava, mi richiamava a sé e io ci ripiombavo giù. Non ero più a casa, ma nella bocca del Lampione infame, al buio, da solo. Passai giorni in quel buco ma ne uscii di nuovo. Rientrando in casa, davanti alla finestra chiusi gli occhi e con un impeto cazzuto serrai le persiane. Ero al sicuro. Feci lo stesso lavoro con le finestre di tutta casa, tanto per scrupolo, anche se sapevo che quegli altri erano soltanto le sue sentinelle. Il capo, il mostro, era lui. Beh, ma io non è che mi lascio intimorire. Anzi, ero incazzato nero. Misi casa sottosopra, aprii tutti gli armadi e le soffitte in cui era accatastata roba di almeno tre generazioni, fra giochi di ragazzini, una miriade di cianfrusaglie da buttare e attrezzature varie. In tre ore di ricerca, tirai fuori una mazza da baseball durissima in formato baby, vari ed eventuali cacciaviti, martelli e coltelli, ma soprattutto rimediai una motosega. Che cazzo ci faceva una motosega in una soffitta del centro di Roma non lo so. Ma c’era. La misi a caricare e nel frattempo feci la borsa con l’attrezzatura varia che poteva servire. La rabbia cresceva ma si trasformava in eccitazione. Non vedevo l’ora di uscire da lì e prenderlo a bastonate quel maledetto Lampione. Lo dovevo estirpare. Mi veniva voglia di aprire la persiana e annunciare la guerra, ma avevo paura. Se avessi rivisto quella bocca enorme e buia e profonda, sarei crollato di nuovo dentro di Lui. Mi misi un cappellino, così una volta uscito in strada, guardando soltanto in basso, non mi avrebbe catturato. Geniale l’idea del cappellino. La motosega si era caricata, aprii la porta e scesi in strada, determinato e incazzato. Mi avvicinai al Lampione e cominciai a prenderlo a mazzate. Quello subito accettò la sfida e cominciò a muoversi con quel collo lunghissimo e la sua bocca spaventosa. Si illuminava e mi cercava, voleva il mio sguardo, voleva fottermi. Ma io non mi arrendevo e giù a mazzate, martellate, cacciavitate. Uscì Remo, del bar sotto casa: Ao, ma che cazzo stai a fa? Non lo guardai, continuai a picchiare, ma lo scalfivo appena. Presi l’arma grossa. Presi la motosega, la accesi e gliela scagliai contro. Un capolino di gente era intorno a me, forse spaventata, non lo so. Ma io dovevo tranciare quel Lampione, lo dovevo abbattere.

Non ricordo altro, se non che mi portò via un’ambulanza. Sono passati anni e il Lampione sotto casa ancora lampeggia a intermittenza, solo al mio passaggio, solo per un istante, ma non si trasforma più. Qualche volta lo fa tutta la via, qualche volta solo qualcuno di loro, lui lo fa sempre. Alla fine ne ho provato a parlare anche con amici e parenti, ma non è servito, quelli pensano cose strane. E così ho imparato a conviverci. Mi sono accontentato. La strada è buia, ma in qualche modo una sorta di luce mi accompagna sempre. Quelle pernacchie le ho trasformate in saluti e inoltre, quando sono arrabbiato per qualche motivo, me la posso prendere con quel vecchio Lampione che ci teneva tanto ad essere fra i miei pensieri. Gli vado davanti, lo sfido, lo guardo dritto in faccia e glielo dico: A Lampiò, m’hai veramente rotto er cazzo. E quello, figurati, come sempre abbassa lo sguardo e s’ammutolisce, lo scemo di un Lampione.

di Saverio Cambiotti

Illustrato da Giulia Gardelli

Altri racconti di questo numero: Passavamo da Scarpone…, Tic

Leggi anche: Un dio infame, che manco se proclama taleEr canto de Dino