I SOSPIRI

Voci dal carcere di Regina Coeli

 

L’intervista è stata possibile grazie alla disponibilità del Progetto Carcere della Fondazione Villa Maraini e del dottor Matteo Ansuini, che ci racconta la realtà: “La fondazione Villa Maraini, istituita nel 1976, opera attraverso una multidisciplinarietà di servizi rivolti alla cura e alla riabilitazione dalle tossicodipendenze. Si contraddistingue per una strategia terapeutica che cerca di adattare la terapia al soggetto, con l’impegno morale che tutti sono meritevoli di attenzione. Tra i vari servizi, uno è il Progetto Carcere. Si occupa dei detenuti tossicodipendenti assistiti da psicologi e operatori che si recano all’interno degli Istituti Penitenziari. L’intento è quello di confrontarsi con individui condannati a seguito del loro stile di vita deviante, spesso associato all’uso di sostanze. Vivere la fatica del carcere per molti può essere stimolo a innescare un cambiamento. A questo desiderio Villa Maraini risponde offrendo l’opportunità di scegliere altro e di intraprendere un nuovo percorso di rinascita attraverso il sostegno della terapia e della cura.”

 

Dalla terrazza del Gianicolo, complice il Ponentino, i cari delle persone rinchiuse a Regina Coeli, gridando, riuscivano a mettersi in comunicazione con i carcerati. Queste grida, forme in cui il dialogo oltrepassa i muri, erano chiamate dai romani i sospiri. Con questa rubrica, il Ventriloco cerca di dare una nuova forma, meno elusiva, alla voce di chi il carcere lo ha vissuto da dentro. Oggey è uno di loro, adesso operatore sociale di Villa Maraini, e ha messo a nudo la sua esperienza.

Oggey, cominciamo dagli inizi…

Sono nato a Rukara, in Ruanda, il 10 ottobre del ‘76. In quegli anni stava per scoppiare il genocidio, se ne sentiva già l’odore e con i miei genitori siamo scappati. Avevo quattro anni. Sono cresciuto e ho fatto le scuole in Tanzania, dove per farmi studiare mia madre ha dovuto darmi in adozione. Ho subito tanto e mi sono sentito abbandonato. Avrei preferito stare a casa con mia madre, magari soltanto con una pasta all’olio. Ho capito che, pure se avevo otto anni, mi dovevo svegliare e cercare l’indipendenza. Non solo da quella famiglia, ma dal Paese e da quella povertà. C’erano altri figli ma io non ero uno di loro, non ero un bambino ma un loro dipendente. Dovevo lavorare, fare tutto. E c’era anche di peggio.

Quando e come hai cominciato ad essere indipendente?

Alle superiori. Mentalmente già ero staccato e poi in qualche modo ho cominciato con la Boxe, ho conosciuto dei ragazzi, i cui fratelli maggiori viaggiavano con la droga. Mi ci sono legato, ma nel giro sono entrato dopo aver lavorato come marinaio, solo dopo essere scappato dal Sudafrica, su una nave, in solitudine. In Europa conoscevo solo quell’ambiente e ho cominciato a fare il corriere.

Avevi finalmente trovato un gruppo

Non erano solo amici. Sono le persone con cui ho conosciuto il significato del legame, dell’amore fraterno. Non avevo una famiglia, non una madre che mi abbracciava dicendomi che mi voleva bene. Grazie a loro, però, ero parte di qualcosa e insieme a qualcuno. Non nego che poi, nello staccarmi da tutto ciò, è stato difficile proprio per quei legami.

Com’è la vita del corriere?

Adrenalina, paura, rischi. Hai il pensiero dei soldi e sei chiuso: pensi che quello sia il solo modo per andare avanti, per vivere e guadagnare. È forte l’angoscia, l’ansia di essere arrestato. Questo mi ha portato anche nell’uso. Cercavo un rifugio dall’angoscia del presente e dal dolore del passato. Adesso ti posso raccontare di quella solitudine, di quel vuoto. All’inizio era un entrare e un uscire ma ho usato sostanze per circa dieci anni.

Poi c’è stato il carcere…

È successo qui a Roma nel settembre 2012. Ero ricercato, sono stato indagato per le intercettazioni telefoniche. In quel momento avevo già cominciato a frequentare Villa Maraini e a prendere il metadone. Ricordo che uscivo dal mare, a Ostia, mi hanno arrestato e portato a Regina Coeli, era la prima volta per me in un carcere. Dopo un mese non ero contento, volevo una scuola e un posto dove lavorare. Non potevo chiedere a chi conoscevo perché erano tutti mescolati negli ambienti da cui provenivo. Ho chiesto di essere spostato. Regina Coeli offre poco e non sentivo di star crescendo. È un luogo sporco, umidissimo, con i muri che si fa fatica a respirare, pieno e sovraffollato. Dopo quattro mesi, ho fatto qualche casino e sono riuscito ad essere mandato via: a Rieti. Lì ho cominciato a fare la terza media e a lavorare. Ho fatto richiesta per andare in Terza Casa, che è un po’ una via di mezzo tra carcere e comunità, dove ho avuto un altro contatto con Villa Maraini, tramite il Progetto Carcere. Alla fine, con l’approvazione degli operatori e del magistrato, ho potuto scontare la mia condanna qui e fare terapia al Centro Alternativo alla Detenzione. Mi avevano dato sei anni, in tutto ne ho scontati quattro e qualche mese. Dopo un anno di CAD la mia condanna era finita, ma sono rimasto per finire il mio percorso.

Il carcere ti ha dato qualche motivazione in più?

Non direi proprio. Sono io che ho sfruttato il carcere. Come luogo in sé, ti dà davvero poca possibilità di recupero. Non abbiamo carceri riabilitative. Il 70% dei detenuti ha avuto problemi di tossicodipendenza, ma non ci sono strumenti. Se non sei motivato ricaschi giù, sei con gli amici e tutti fanno uso di pasticche, droga in generale, come fai?

Un altro di quei luoghi da cui si ha bisogno di fuggire

Fuggire. Esattamente. Io però ho studiato e lavorato, avevo un obiettivo chiaro e sono cresciuto. Alla fine mi sono diplomato in ragioneria qui a Villa Maraini. Ho chiesto il permesso per frequentare la scuola, mi conoscevano bene ormai, e hanno detto di sì. Mi capitava di andare addirittura dietro a Regina Coeli per fare gli esami.

Hai trovato gli strumenti e le possibilità che il carcere non ti dava

Sì, oltre alla scuola ero pronto a sfruttare ogni psicologo e ogni operatore volesse darmi una mano. In carcere incontri una psicologa una volta ogni tre mesi, se sei fortunato, ed in più hai meno di mezz’ora per parlarci.  Qui ti svegli e ti trovi davanti a te stesso, in ogni aspetto, giorno e notte.

Cos’è per te la notte?

La notte è un momento buio.

Ma può essere anche un momento privato e uno spazio di riflessione.

Ti racconto questa cosa. I primi giorni in cui sono arrivato a Villa Maraini non riuscivo ad addormentarmi. Dopo tutte quelle notti in carcere, con tutte quelle chiusure, facevo fatica ora a dormire umanamente, in una stanza senza quelle sbarre, senza qualcuno che viene a chiudere la cella. Ero abituato a quella chiave e tutti quei rumori metallici, stridenti e ripetitivi. I primi giorni non riuscivo a chiudere gli occhi e mi dicevo ‘Ma quando arriverà a chiudere?’.

Con le dovute proporzioni, è come l’uomo di città, abituato ad addormentarsi fra i rombi delle macchine, i clacson e le grida, che va in campagna e ritrovandosi nel silenzio assoluto, le prime notti, non si addormenta.

Quella sensazione lì, esatto, ma con la paura. Dopo un po’, comunque, mi sono abituato di nuovo. Ho ripreso contatto con le persone. Anche fisicamente. Noi, ragazzi di strada o tossicodipendenti, perdiamo il senso dell’amore, della fiducia nelle persone. Siamo isolati e ci sentiamo soli. Ma si possono trovare, come è successo a me, delle persone che ti riempiono il cuore. C’è chi ti accetta in questo mondo e ritrovi il senso, la spinta di vivere.

Hai fatto un altro anno di comunità e poi cos’è successo?

Ho seguito tutte le fasi del programma. Si ricomincia con le uscite del finesettimana, poi c’è l’H12, ovvero venire qui la mattina, fare attività di comunità, i gruppi, incontrare gli psicologi, ma poi andare a dormire fuori. Mi hanno organizzato in una casa famiglia, non avendo qui la mia. E poi la fase avanzata, in cui lavori e dormi fuori.

Ti aiutano anche a trovare lavoro?

Ho cominciato lavorando qui nella cooperativa. Ho fatto anche il fruttivendolo e il badante, quello che trovavo, e continuavo a studiare. Nel 2018 sono uscito con una grande volontà di aiutare gli altri, lo sapevano e una volta mi hanno chiamato e mi hanno detto ‘Guarda, ti diamo questa possibilità come operatore sociale’. Ho cominciato come volontario ed ora è un lavoro. Ma non si tratta solo di questo, potrei trovare lavoro ovunque. Si tratta, invece, di realizzare il mio sogno, di giustificare quegli anni che ho perso. L’unico modo per potergli dare senso era utilizzare questa esperienza negativa portandola nella positività, aiutando qualcun altro, prevenendo certe situazioni. È il mio progetto.

E stai ancora studiando?

Sì, mi sto per laureare come mediatore culturale. Studio a Trastevere, al San Gallicano, dove c’è un’università collegata con la Dante Alighieri, l’università degli stranieri. Si può lavorare poi nelle ambasciate, nelle questure dove arrivano stranieri, nei centri d’accoglienza o in tribunale. Ho a che fare con persone che stanno da una parte della realtà e devono confrontarsi con l’altra parte.

Le persone che aiuti riconoscono che sei stato uno di loro?

Mi riconoscono e in qualche modo aiuta, ma per chi è ancora chiuso c’è un pochino di difficoltà. Mi vedono come un infame, una spia, un traditore. Anche io, un tempo, non volevo sentire questi discorsi. Invece con chi è già un po’ più aperto si trova facilmente un dialogo. Da quando ho cominciato non ho avuto difficoltà, dipende anche da come sei fatto e da come ti poni.

E continui a mandare i soldi a casa?

Certo. Mia madre è morta nel 2017 ma ho un figlio in Tanzania. Mia sorella è sposata e ha la sua vita. Io provo a ricostruire il rapporto con mio figlio, sono divorziato e lui vive con la madre. Ora, anche con l’aiuto degli psicologi di qui, stiamo diventando amici finalmente.

Riesci mai ad andare a trovarlo?

Per adesso no. Sono richiedente asilo e non ho ancora il documento. Ho il permesso di soggiorno provvisorio ma sono ottimista, lo sono sempre. Ormai posso dire che niente è impossibile.

Questa è una storia positiva nonostante nasca da tanta sofferenza

Il mio obiettivo è aiutare chi sta in quel buio, farlo svegliare, uscire da quella condizione, da quel buco. Fargli capire che non è soltanto colpa loro e che la vita è bella fuori da questo buio. Non ho nulla di materiale, vivo e lavoro come chiunque altro, però quando mi sveglio penso che la bellezza è anche nelle piccole cose e prima non riuscivo a vederla. Ho cercato e cercherò sempre di trasmettere questa visione a chi ne ha bisogno.

So che organizzi attività sportiva qui a Villa Maraini

Ogni mercoledì faccio un gruppo per la corsa, il venerdì il calcetto. Ma non solo questo, c’è anche l’aspetto della scuola. Qui ci sono dei ragazzi che non hanno neanche la terza media. Dopo l’uscita dalla dipendenza ho capito che bisogna essere stimolati dalla letteratura, dallo studio in generale, che apre la mente. E poi c’è un aspetto pratico, avere in mano un foglio che si può presentare, almeno di quinta superiore, per rendere più semplice la ricerca di un lavoro e l’entrata nella società, senza ricascare negli errori di prima. Che poi è il grosso problema del carcere.

Credo che ognuno di noi, anche prescindendo dalle dipendenze o dal carcere, ha del buio dentro, in qualche modo o per qualsiasi motivo

Non è stato facile, ma ho scoperto che dentro di me c’è amore, invece che odio. Ma non potevo rimanere da solo, sono un essere umano, un animale sociale, e la mia felicità non avrebbe potuto essere completa. Quelli che mi circondano meritano il mio sorriso. Il malessere e la felicità sono contagiosi. Se vai in posti in cui le persone sono tristi, sarai triste anche te. Per questo vale la pena regalare un sorriso. Per esempio, in carcere è difficile trovare persone che ridono o che sorridono, gira soltanto malessere. Ma se ne può uscire, con un po’ di volontà.

 

Di Saverio Cambiotti

Illustrato da Marta Bianchi

Leggi anche: I sospiri – “Sono io il pezzo grosso”Tra le braccia di ReginaHotel Regina Coeli

Altri articoli di Territorio di questo numero: Trastevere: emergenza movida cercasi, Questa notte mi fa impazzire, Maurizio il tassista, La peste antonina, Una foto per una storia Episodio #6Fantasmi nella notte, Lapa, Rio de Janeiro, Tra dipendenza e socialità, Le notti a Massenzio, Checco Er Carettiere VS Sor Andrea Cori