Partivamo dalla libreria Tilopa di Monteverde Vecchio, a via Fonteiana; ci ritrovavamo da quelle parti perché tornava comodo e perché quella libreria era il nostro tempio, era casa nostra. Partivamo sempre da Tilopa. Andavamo ciondolando per via Fonteiana, oltre piazza Ottavilla, parlando di ragazze o della Roma di Fabio Capello, di cosa poteva vincere ancora. C’era sempre uno di noi che aveva avuto una questione con una ragazza e si trascinava dietro un groppo di malinconia; sulle prime stava più quieto e metteva il muso, ma poi, più ci avvicinavamo alle mura e all’antica porta, più si rilassava e cambiava aria. C’era sempre qualcuno che contestava Franco Sensi, perché aveva sbagliato a comprare Pelizzoli e non Buffon, perché Cassano non valeva tutti quei soldi, perché Batistuta era chiaramente zoppo da un anno almeno. Il ricordo dello scudetto era troppo fresco per potergli andare dietro. Stavamo sognando.

Passavamo, io e i miei compagni, per via di san Pancrazio, costeggiando le villette e la vecchia locanda “Scarpone”, dove si diceva si trovasse, coperta dai rovi e dai cespugli, una delle più affascinanti tombe paleocristiane, il famigerato ipogeo dello Scarpone; nessuno c’era entrato mai, almeno nessuno dei nostri; camminando raso muro, mi affacciavo sempre a una delle vecchie porte della locanda, probabilmente una di quelle da cui passavano i cavalli, ancora cento anni fa; c’era un pergolato superbo e se chiudevo gli occhi riuscivo a sentire ancora il cloppeticloc cloppeticloc degli zoccoli. Per me quella porta aveva qualcosa di incantato e ancora adesso penso che se busso in una certa maniera allora cambia tutto, torno indietro agli anni del Triumvirato e Roma è ancora una città giardino, è ancora la rovina della città imperiale, intatta, nei limiti, da millequattrocento anni. Cloppeticloc, cloppeticloc.

Passavamo, io e miei compagni, davanti alla villa della Massoneria, davanti al Vascello – io preferivo guardare dieci metri più avanti, c’era il busto di un triestino giudio, Giacomo Venezian, martire risorgimentale; riuscivo a capire quella Massoneria, quella di Venezian, e poco altro, poco oltre, di quel loro ambiguo e oscuro mondo; altrimenti ero confuso se considerarli figure carnevalesche, opportunisti o loffi. I miei compagni mi chiedevano se avevo capito la differenza tra logge massoniche. Non rispondevo. Pensavo a Venezian. Andavamo oltre, a quel punto stavamo di fronte Porta san Pancrazio; Roma era a un metro, passare oltre le mura voleva dire entrare in città – entrare in città voleva dire liberarci di noi. “Quanta voglia di una trasteverata…” – mi diceva Ian, mentre camminavamo al di là della porta, scendendo, poco a poco, verso il nostro giardino. Marco stava là a guardare villa Aurelia, cercava qualcosa con lo sguardo, tra le rovine, non diceva mai cosa; passavamo, fiutando l’aria, e se ci pensavamo bene ecco che, poco a poco, lo scalpiccio dell’acqua der Fontanone ci prometteva qualcosa di diverso: una distrazione, una divagazione, una scusa per una sigaretta. Mannaggia quelle sigarette. Appena scesi oltre Porta san Pancrazio, avevamo di fronte tre strade; una, a sinistra, portava all’Ottavo Colle, al nostro Gianicolo: là si andava a finire le nottate, non a cominciarle; là si andava con le ragazze, normalmente, e non tra noi. Un’altra strada, dritta per dritta, era la mia preferita – era una vecchia scalinata che ci portava giù a Trastevere, costeggiando il Cervantes e l’Orto Botanico. Quanto profumo. Un’altra strada, là a destra, ci portava di fronte al Fontanone: “Fermamose n’attimo”, diceva Ian, ci fermavano, stavamo là e io mi mettevo a contare i draghi, di solito, quella fontana era piena di draghi, e non guardavo più in là, più in basso, verso san Pietro in Montorio, quella parte del rione aveva qualcosa che mi respingeva, da un po’, preferivo non pensarci. “Ma allora che famo stanotte?” – chiedeva Marco, che non fumava e guardava l’Eterna dal balcone, là di fronte al Fontanone. “Vedemo dai. Scennemo giù, magari andiamo oltre santa, annamo al Re Artù…”. Davanti a noi c’era il Fontanone, dietro di noi Roma distesa a lasciarsi guardare: nei nostri pensieri di sconfinata giovinezza non c’era niente che potesse spezzare o almeno incrinare la nostra incandescenza. Finita la cicca, bene, dai, scendiamo: e dove scendiamo? Come dove scendiamo, scennemo dalle scalette, io de llà nun ce vado, scennemo de llà, ‘namo. Namo daje. Namo.

E così, lemmi lemmi, passavamo, io e miei compagni, per quella scalinata malconcia, antica, sporca e superba di romanità, stando bene attenti a non scivolare e a non rovinarci addosso; e ogni gradino era già un sorso del rione Trastevere, un pezzettino di gioia in più. Quanto era naturale scendere laggiù, a piedi, e starcene per qualche ora dentro l’anima di Roma: rifugiati e rigenerati, riparati e ricaricati. Le fronde degli ultimi alberi prima di via Garibaldi; e poi giù, avanti per via Garibaldi, e mentre scendiamo parliamo degli album dei Pink Floyd, di com’era prima con Syd e di come è stata poi; e di cosa era John Lennon per i Beatles, e cosa George Harrison; io finivo sempre per dire qualcosa sui Radiohead, a quel punto, “Kid A” e “Amnesiac” erano usciti da un attimo e mi sembravano lavori eccezionali, fedeli allo Zeitgeist, e non so più nemmeno quanti esami universitari avevo preparato ascoltandoli a ripetizione, e non so più nemmeno quante altre volte, che: che niente, eccoci, guarda che fiumana di gente; di là c’è l’altra porta, Porta Settimiana, e non andare di là che prima ci trovi gli americani (per carità!), poi poco oltre tocca andarci di giorno, ci stanno gli affreschi di Raffaello, là nella villa, non mi dire che non sei andato mai, non ci credo, lascia perde dai. Lasciamo perde. Invece se andiamo dritto finimo a piazza Trilussa: che famo se annamo a piazza Trilussa? Niente, dice Marco: niente, penso io: mica volevamo passa’ ponte: noi restamo sulla riva destra, come gli etruschi. Penso però alla statua del poeta, là in piazza, dico famo capoccella dar poeta e poi tornamo indietro, vabbè semmai famo dopo. E quindi… quindi se da qua annamo a destra, eccoci per la strada maestra, stamo in mezzo alla gente e a tutti questi colori, senti come pulsano le vene de Roma, andiamo per i vicoli del rione come per le vene di Roma antica. Mi viene sempre voglia di andare a via Benedetta perché… non te lo dico e non ci vado, non stasera. Stasera stamo insieme noi, rega’: tiramo avanti, avemo detto “Re Artù” – così avemo detto, namo.

E niente: passavamo, io e miei compagni, ore a parlare di letteratura, d’arte e di romanità, di Roma che doveva fronteggiare Milano, di una scena che dovevamo rianimare e che dovevamo restuire alla città, di riviste che dovevamo tenere in piedi e di un’altra pinta che questa è già finita; di Trastevere che era casa nostra, mica Testaccio, che c’annamo affa’ a Testaccio? Stamo tanto bene qua, no? Stavamo là a parlare di Roma, di Lazio, di ex ragazze, di muse, di chimere e di disgrazie, di esami, di statini, di statoni, di precarietà, di tirocini e di erasmus, di balordi e di fanfaroni, di accademici e di baroni, di politici e di ladroni, di macchine vecchie, di vacanze da fare, di pezzi di Roma antica da rispolverare. Poi, tutto a un tratto, qualche volta caracollando un po’, uno diceva rega’, domani me devo sveja’ presto, presto che vor dì, alle dieci? Eh certo, alle dieci, infatti, come diceva er conte? “Mai prima di mezzogiorno”, infatti, comunque rega’ prima cosa a voja adesso a rifacce tutta via Garibaldi e poi quella scalinata erta così, ao’ pija male, ammazza quanto te pesa er culo fijo mio, e lo so, ao’ pijamo er cannone der Gianicolo e te ce sparamo indietro fino a Clivo Rutario, see daje, è ‘na strada pure quella: famo: che famo, daje, cammina, e ammazza hai visto quella che occhi, sì proprio l’occhi hai visto, e niente. Domani fammi uno squillo quando torni dallo studio, ti devo dire di una cosa che ho sognato tempo fa.

 

di Gianfranco Franchi, Gianicolo, febbraio 2020

Illustrato da Titti Fruhwirth

Altri racconti di questo numero: Tic, Lo scemo di un lampione

Leggi anche: Pensiero zeroNei due metri liberi della stanza, diciamo cosíPorco Giuda, li marziani 

Gianfranco Franchi (Trieste, 1978), scrittore e critico letterario, non pubblica narrativa dal 2009 (“Monteverde”, Castelvecchi); ultimo segno di vitalità artistica, il bizzarro anfibio “L’arte del piano b” (Piano B, 2011). Per una decina d’anni è stato responsabile della rivista letteraria «Lankelot». Collabora con «Mangialibri» e RadioRai (dove risulta “in sonno” da tre anni). Tutto quel lavoro finisce stivato nel suo Porto Franco: circa 1600 articoli di critica letteraria, interviste e approfondimenti [www.gianfrancofranchi.com]