RACCONTI TRASTEVERINI

 

L’I-phone mi suona in tasca e Paulo me ne versa un altro. È la sesta chiamata. La terza di mia moglie, le altre di mia suocera. Ma non rispondo. Metto silenzioso.

Voglio molto bene a Paulo, anche se lui è sempre stato un po’ strano con me. Un po’ lento. Non a caso, i cattivi lo chiamano ritardato, mongoloide. Eppure, qui nel quartiere, abbiamo imparato tutti a conoscerlo. E tutti, più o meno, ad accettarlo per quello che è. A volergli bene. Perché Paulo è uno di quei “ritardati buoni”. Di quelli non irosi, né schivi, rumorosi, o pedanti. Ma piuttosto, uno capace di esprimere ancora quella particolarissima gioia infantile, che noi “normali” lasciamo marcire con orgoglio nei giardini più aridi della memoria. Quindi – e non mi vergogno a dirlo –, per me, Paulo è una specie di primavera. Una specie di risveglio. Umido e colorato.

Comunque, ovunque lo incontri, Paulo dà sempre l’impressione di uno che ha passato la notte lì vicino. All’addiaccio. Accampato. Nelle trincee fangose di questa eterna guerra che è Roma, o in qualche vicolo buio di questo sterminio ambulante chiamato Trastevere. E tutte le notti che Cristo manda giù in terra, lui ce le ha segnate in fronte, tra le rughe dei sessantacinque anni che dichiara ostinatamente di avere. Ma quando ride, lo giuro, Paulo ridiventa un ragazzo. E le rughe gli si piallano fino a renderlo una maschera levigata, angelica, latinoamericana. Fino a renderlo seta. Una bambola di carne senza età e senza tempo. Senza patria e senza Dio. La migliore definizione la diede, pulendosi con un fazzoletto, un tizio mai più visto a Trastevere.

Paulo è un vecchio-bambina, disse.

Sì, è proprio vero. Paulo è un vecchio-bambina, risposi pulendomi anch’io.

Ad ogni modo, lui ha un carattere molto semplice e un cuore molto caldo. Ed è tanto buono quanto decifrabile. Se fosse un alimento, sarebbe un ghiacciolo al limone, o pane e olio e sale. O un riccio mangiato vivo tra le onde. O qualcosa così, di semplice e bello. Come un tramonto. Di buono, come un tramonto.

Va detto però che Paulo ha un grave problema. Beve. E questo purtroppo, in qualche modo, “opacizza” il suo sentimento reale. Si venderebbe la madre per tre litri di Peroni. Ma quando ci incontriamo, di solito, non mi piace soffermarmi su certi particolari. Perché le regole sono che io pago. E lui versa. E anche nei più luridi, squallidi, ammaccati bicchieri di plastica, la sua schiuma dovrà essere sempre impeccabile, cremosa. Dovrà essere un nembo bianco di Peroni disteso nel cielo di mezzogiorno. Un nembo bianco perfetto, nel cielo di qualsiasi ora, di qualsiasi giorno.

Anche le rose hanno le spine. E infatti, qualche volta, Paulo se la fa sotto, o vomita, perché lui è uno così, diciamo spontaneo. E io lo trovo particolarmente inelegante, quando lo fa. Sgradevole. Quindi mi sale un po’ di rabbia, di rancore.

Ma poi lo osservo indicare un gatto sdraiato sul cofano di una macchina davanti al Calisto e subito dopo lo vedo ridere. Ridere di gusto. Allora mi sento di aver fatto del bene. Anzi, mi sento di aver fatto beneficenza. E a quel punto, non so veramente capire cosa sia (o chi sia) quella strana, fuggiasca, goccia d’inchiostro che cade sulla mia vita bianca, e che qualcuno mi ha detto chiamarsi “Felicità”. Perché io non ci credo. Eppure adesso sono felice.

Quando Paulo ride, sono felice.

A me, sia ben chiaro, di Paulo non frega un cazzo. Niente di niente.

Soprattutto quando mi arriva la quarta chiamata di mia suocera.

Il destino mi chiama, la vita mi interpella. Mala verità è che a me non me ne frega un cazzo. Nulla. Ora, io sto qui, con Paulo, davanti al cinema Reale, e lo faccio ubriacare. Anzi ci ubriachiamo insieme. E chissenefrega di tutto il resto. Chissene strafrega che sono le dieci del mattino. Chissene strafrega che oggi è un giorno speciale. Lo so.

Perché se Paulo ride ancora, e mi guarda di sguincio, con la linea della mascella atzteca, e la sua barba rada e bianca… quel qualcosa accadrà ancora, e lui sarà all’improvviso irresistibile… e infatti, eccolo trasformarsi in un selvaggio materno, in un selvaggio femminile, in un selvaggio dannatamente mestruale, e ciclico, e supplicante, e lo giuro, lo giuro davanti a tutti i santi di San Cosimato, che mentre lo guardo mi tocco due grosse uova sode nelle mutande, e penso al mio odio come a un albume, e al mio amore come a un tuorlo tiepido e bavoso, pronto a fuoriuscire.

Brutto schifosissimo, maledettissimo handicappato, Paulo.

Certe volte, credo di amarti.

Alla quinta Peroni, è finalmente giunta l’ora di incularmelo nuovamente. Alacremente. Felicemente. A sangue. E mentre lo faccio, penso ai sassi, ai massi, a certe frane di montagna che finiscono sulle strade e bloccano tutto. A lui che mi guarda e sorride, imprigionato nella giovinezza di un sorriso esausto. A lui che mi ricorda una palude di adolescenza fatta di carne scaduta e tremula, e pelle moscia, e vermi che se la mangiano piano dal didentro.

Ci ho pensato tante volte. Ma non ho mai trovato risposta. A questa mia fame. A questo mio appetito. Mi è capitato solo con Paulo. Mi capita solo con lui.

Evidentemente, Paulo è per me come una sorta di trampolino, una sorta di rampa che mi aiuta a perdere la dimensione umana. Che mi fa regredire, o evolvere, nell’animale che ho dentro. Nel cane che annusa la merda. Nella gatta in calore che più sbrodola, più desidera essere chiavata fino al cuore.

Poi arriva l’ennesima telefonata di mia moglie.

Non posso non rispondere.

Tesoro, tesoro mio… la voce è rotta dal pianto… è nato, è nato, mi dice… e io la interrompo, Ti amo amore… piccola micia, amore mio… ti amo così tanto… le dico nel pieno vortice delle emozioni…piccola mia… e allora piangiamo insieme come due bambini, anzi come tre bambini, finalmente insieme, come nel momento del concepimento, addirittura quasi più insieme di quel momento, anche se adesso sono al cellulare, distante qualche chilometro dal sangue del mio sangue. E così la saluto con voce profonda, commossa, perentoria, solenne, una voce che non ho mai avuto il piacere di sentire prima d’ora, e le dico sto arrivando amore mio, sto arrivando piccola micia, stanza 22, dammi cinque minuti. E mentre m’incammino verso l’isola Tiberina, mi fa male il cazzo, e accendo la prima sigaretta della giornata, e guardo la corrente sotto al ponte Rotto formare strane figure. Poi sorrido, perché sono felice.

Alla fine l’abbiamo chiamato Paulo.

 

Di Agostino Muertes

Illustrazione di Matteo Brogi

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