Alto, spalle larghe, il fisico ben allenato dalla bicicletta: Max. Un bell’uomo ordinato dal profilo altero, spesso in jeans, a volte con uno smanicato di colore rosso, ben abbinato al bicchiere di Campari che si concedeva al sole dopo una bella pedalata, con il suo solito anello dalla moneta incastonata.
Era spesso seduto a un tavolino di quel bar prestato tante volte al cinema, il Calisto, il bar nato da Marcello Forti. Cuore e anima pulsante di Trastevere, abbiamo festeggiato i cinquant’anni del bar, in un’ignara estate pre-covid prima che vari decreti ce lo impedissero.
Al Sanca, negli anni, è stato fatto il Cinema vero: quello “rubato” e intravisto a “mozzicchi e bocconi” sul set, come quello con Giallini vestito anni ‘70 appoggiato ad una brillante rossa spider a farsi baciare dal sole davanti al portone della chiesa. O il cinema improvvisato di quella sera di febbraio che realizzammo, grazie alla bella partecipazione del rione, per Luigi Marchetti, per tutti noi il Vichingo, o abbreviato, come si fa con i grandi amori, in Viky. Quando diventammo tutti spettatori grazie ad una finestra al secondo piano, un proiettore, la facciata di una chiesa e tanto amore. Quella sera, tra lacrime versate e sorrisi stampati, finimmo le scorte di Campari del Bar per omaggiare Luigi. Non era mai successo prima, che finissero le scorte. Marcello, Fabrizio, i loro ragazzi e tutta la grande squadra che anima il bar San Calisto, metà giallorossa e metà biancoceleste, sanno fare bene il loro mestiere ed occuparsi delle scorte è la cosa da saper fare meglio. Ma chi se lo sarebbe mai aspettato un festeggiamento così imponente per il Vichingo? Nessuno, nemmeno noi: “Avemo festeggiato pe’ tre giorni come fanno ‘li zingari”, loro sì che le feste le sanno fare, per non parlare dei concerti, i migliori a cui abbia mai assistito a Roma per location e organizzazione, in una città in cui da anni ai giovani vengono negati gli spazi per “fare rumore” in modo libero.
Penso a Mario Monicelli e alla fine che ha fatto. Penso alla scelta che ha dovuto fare. La stessa di Max. Costretti a lanciarsi dai piani alti di un ospedale per avere una fine dignitosa. Eppure questo non è cinema. No, non è cinema e non riesco ad essere arrabbiata con Max per la sua scelta. No, questa volta non posso arrabbiarmi, non è come le altre volte, non è nemmeno come assistere continuamente alle tante, troppe persone che si lasciano continuamente e lentamente brutalizzare dall’abuso di una qualche sostanza a basso costo e certamente di ancor più bassa qualità, quei suicidi più lenti ma implacabili, quelli che alcuni purtroppo hanno ancora il coraggio di chiamare e scambiare per vita.
Questa volta è diverso. È diverso perché per Massimo ho sempre nutrito molta stima e la sua mancanza è ancora alimentata da questo complemento. Il suo resterà ai miei occhi un gesto dimostrativo, in un Paese che ancora non permette di porre fine alle proprie sofferenze, di decidere della propria vita in modo civile.
Quando un animale sta soffrendo in maniera irreversibile un padrone responsabile, civile ed umano pone fine al dolore che gli vede negli occhi il prima possibile e senza pensarci più dello stretto necessario. Animali che qualcuno reputa ancora come una “conquista legislativa” aver rapportato a persone, dimenticando consapevolmente basilari leggi biologiche che regolano continuamente le nostre esistenze. Gli animali sono qui anche per ricordarci questo, permettendoci di confrontarci con loro. Uno dei migliori atti di umanità che un essere umano, tramite l’animale di cui ha cura, può dimostrare a sé stesso, attraversando un dolore impari con altri dolori, non è libero di attuarlo per sé.
In un Paese abitato da persone evolute.
In un Paese evoluto, queste cose non accadono.
Un Paese in cui, almeno, dopo anni di contenziosi e d’inaudite sofferenze di molti c’è una legge sul testamento biologico, la 219, arrivata solo nel 2017 e solo dopo l’evidenza delle strazianti vicende Englaro e Welby. Un Paese in cui non puoi scegliere, dignitosamente, di porre fine alle tue sofferenze in modo umano. Penso ancora al cinema però, penso ad un film coraggioso e struggente, penso ad un eccellente Javier Bardem nella sua solenne e potente interpretazione da protagonista in “Mare Dentro” dove affida ad amici veri, quelli sì che lo sono stati, l’onere e l’onore di aiutarlo a morire. Ma io ora vorrei capire un’altra cosa, ho l’assoluto bisogno di capire perché in Italia, in Toscana, esistano reparti al quinto piano, con finestre senza sbarre, con una balaustra accessibile da dove Max ha scelto di porre fine ai suoi giorni, da dove ha scelto di uscire definitivamente di scena. Qualche risposta forse l’avrò dall’inchiesta in corso. Forse. Ho bisogno di capirlo perché questo non è cinema. Non posso filosofeggiare su un’interpretazione qualsiasi, non posso pontificare davanti a un Campari al baretto sulla scelta del regista o degli autori sul motivo della violenta uscita di scena del protagonista. E non certo perché in questi tempi parlare di un film uscito al cinema mi viene impedito, non posso perché Massimo aveva un profondo rispetto per la vita, una vita che già aveva rischiato di perdere e per cui aveva già combattuto, come un leone. Perché i sopravvissuti lo sanno meglio degli altri quanto vale anche il più piccolo dei piaceri come bersi qualcosa al sole, in compagnia o in solitudine, dopo un bel giro in bicicletta. Ci sono così tante domande da porsi su questa vicenda, tranne una: perché lo hai fatto Max?
Il perché ce lo siamo detto tante volte, mentre ragionavamo su quanto fossero cinematografiche le nostre di esistenze, scambiandoci le nostre esperienze, entrambi ancora a fare i conti e a ragionare su come fino a lì l’avessimo “scampata bella”, nonostante, per motivi diversi, condividessimo un nemico senza volto che cercò di fermarci prima del tempo, ma a cui entrambi non lo permettemmo. Su quanto comunque fosse tutto un grande regalo da meritarsi ogni giorno, perché questo è il tempo a noi concesso di vivere e va vissuto al meglio. Quel meglio che non ti sei sentito più la forza di raggiungere, che non avevi più la possibilità di vivere come davvero volevi, come avevi coraggiosamente imparato nel tuo tempo. Ciao Massimo, ti porterò in giro con me a conquistare leggerezza, qui dove tengo le cose preziose, tra gli sguardi e il cuore.
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