Santa Cecilia e i suoi luoghi a Trastevere

In Trastevere si trova il principale santuario dedicato alla santa che il mondo intero riconosce e celebra come patrona della musica.

La basilica di santa Cecilia, ricca di arte e devozione, custodisce sotto il mirabile e raffinatissimo ciborio marmoreo, opera del grande Arnolfo di Cambio (1293), le spoglie della fanciulla che testimoniò la sua fede fino alla morte.

Ma cosa sappiamo di lei? E perché mai il luogo dove è venerata è proprio nel Trastevere?

Di Cecilia sappiamo solo ciò che ci è tramandato dalla tradizione martirologica: la giovane patrizia promessa in sposa al nobile Valeriano, il giorno delle nozze confidò al marito la sua fede e il suo voto di castità. Valeriano colpito dal carisma della ragazza si convertì la notte stessa e si recò sulla via Appia per ricevere il battesimo da papa Urbano. Di lì a breve anche Tiburzio, fratello di Valeriano si convertì e battezzò.

La tradizione agiografica narra che tutti e tre alla fine subirono il martirio per la loro fede. Cecilia fu condannata a morire soffocata dai vapori caldi nel balneum (piccole terme private) della sua casa nel Trastevere, ma un angelo le corse in aiuto con il battito delle sue ali per refrigerarla. Dopo tale prodigio l’autorità romana pensò bene di passare alla decapitazione: il boia diede tre colpi sul collo di Cecilia ma la testa non si staccò e poiché oltre il terzo colpo non si poteva procedere come da regola, la poveretta restò in agonia per altri tre giorni, finché spirò. Il suo corpo venne sepolto nella catacomba di san Callisto sulla via Appia.

Questi fatti secondo la tradizione si sarebbero svolti nel 230 d.C.

Si nota nelle fonti agiografiche l’insistenza nell’indicare i luoghi in cui agiscono i protagonisti della storia: dopo le nozze i due giovani si recarono nella casa del Trastevere e nella stessa casa si trovava il balneum suddetto, dove Cecilia fu uccisa.

Cosa resta oggi di questa casa? Gli scavi archeologici effettuati nel 1899 sotto la grande basilica rivelarono antiche murature: resti di muri in opus quadratum e di colonne doriche, appartenenti molto probabilmente ad una domus di età repubblicana, che nel tempo furono inglobate in una insula di mattoni (caseggiato popolare) di età imperiale dotata di cortile centrale, botteghe al piano terra e fiancheggiata da una antica strada romana che corre sotto la moderna via Anicia. La presenza di questo edificio abitativo rafforza la tradizione del Titulus Caeciliae ossia del primitivo luogo di culto cristiano insediatosi nella casa di Cecilia.

La comunità cristiana di Roma fino al IV secolo si riuniva ed amministrava il battesimo all’interno di proprietà private messe a disposizione da alcuni membri della comunità: le domus ecclesiae dette anche Tituli. Ed è proprio su questo aspetto che la letteratura agiografica (risalente al V secolo, quindi posteriore agli eventi narrati) insiste moltissimo. Lo scopo è proprio quello di tramandare la memoria del primitivo luogo di culto, ma soprattutto del martirio dell’antico proprietario/a, che è alla base della fondazione di molte basiliche romane tra cui la nostra trasteverina.

Ciò che rafforza storicamente la tradizione è il rinvenimento, al piano terra dell’insula, di un balneum nel quale, intorno al V secolo, fu realizzato un battistero che doveva essere pertinente all’antica ecclesia della quale purtroppo non conosciamo lo sviluppo planimetrico e che molto probabilmente continuò ad occupare i vani dell’antico caseggiato.

Soltanto nel IX secolo papa Pasquale I (817-824) in seguito ad un sogno, decise di far cercare il corpo di Cecilia, il quale fu rinvenuto sull’Appia e trasportato in Trastevere, per essere ospitato nella magnifica basilica costruita appositamente da lui, che la volle ornata di splendidi mosaici.

Se oggi ci si avventura alla scoperta dei sotterranei è possibile ammirare la lastra marmorea (riuso di una parte di sarcofago romano) che reca l’iscrizione di Pasquale I decorata da una magnifica croce realizzata con tarsie di paste vitree policrome dove si ricorda la traslazione dei resti della santa.

Pasquale I con questo grande intervento edilizio rinnovava nel Trastevere l’antico culto, creando un importantissimo santuario martiriale che attivò e incrementò il fenomeno del pellegrinaggio nell’antico rione.

Trasferire i resti mortali dei martiri all’interno della città divenne un fenomeno abbastanza frequente nel IX secolo e ciò risolveva il problema dell’oblio dei corpi santi. Infatti secondo la legge romana, le aree funerarie dovevano essere assolutamente esterne alla città, ma la città del III secolo aveva una cinta muraria lunga circa 19 chilometri e all’interno vi abitavano 1.500.000 di persone.

Il collasso demografico e la decadenza portò la Roma altomedievale ad uno spopolamento drastico e ad una contrazione urbanistica: si stimano circa 30.000 abitanti, che si riversarono sulle sponde del Tevere non essendo più attivi gli antichi acquedotti, dopo il 537: questa situazione rendeva troppo lontani i cimiteri extramuranei e si rischiava di mettere in crisi la venerazione delle tombe dei martiri.

La soluzione più pratica fu riesumare e traslare in città i corpi collocandoli in chiese a loro dedicate e intelligentemente collegate ai luoghi che li avevano visti protagonisti in vita. Pasquale I fu il più importante artefice di questa impresa.

I resti mortali fatti recuperare da Pasquale I furono collocati sotto l’altare in antichi sarcofagi romani. Lì rimasero fino al 20 ottobre del 1599 quando si procedette alla ricognizione delle reliquie della santa. Si narra che all’apertura della cassa il corpo di Cecilia apparve incorrotto, con la sua veste trapunta d’oro, prodigio che fu ammirato da una folla incuriosita accorsa in chiesa per ammirare la santa, esposta alla visione del popolo per diversi giorni.

La celebre statua, realizzata in quella occasione, è legata ad una leggenda: il giovane scultore incaricato dell’opera, Stefano Maderno, la cui fama si legherà proprio a questo eccezionale lavoro, avrebbe ritratto la santa nella stessa posizione in cui fu ritrovata al momento dell’apertura della cassa.

La raffinatezza di esecuzione, la conoscenza dell’antico che aveva il Maderno, la geniale soluzione di collocare l’opera realizzata in candido marmo pario all’interno di un loculo rivestito di marmo nero, creando un forte effetto scenografico, nonché un richiamo evidente all’originario loculo catacombale in cui fu rinvenuto il corpo secoli prima, fanno di questo monumento un grande momento di arte.

Il corpo di Cecilia è disteso a terra, il suo volto invisibile cede il posto al turbante che le trattiene i capelli, per mostrare il collo, dove si nota il taglio e alcune gocce di sangue: il suo viso lo si può solo immaginare, accrescendo l’aura di mistero che avvolge la figura luminosa nel suo candore.

Nonostante la leggenda della sua posizione al momento della scoperta non corrisponda a realtà, nulla toglie al fascino che dopo secoli questa opera esercita sui visitatori che arrivano ad ammirarla da tutto il mondo riconoscendo in lei la patrona della musica.

Ma come nasce questa tradizione? La questione è complessa poiché bisogna rifarsi ad un’errata interpretazione di un canto latino: l’antifona di introito alla messa nel giorno della festa di Cecilia, il 22 novembre:

“Cantantibus organis, Cecilia virgo in corde suo soli Domino decantabat dicens: fiat Domine cor meum et corpus meum inmaculatum ut non confundar” (“Mentre suonavano gli strumenti musicali, la vergine Cecilia cantava nel suo cuore soltanto per il Signore, dicendo: Signore, il mio cuore e il mio corpo siano immacolati affinché io non sia confusa”)

Organum in latino significa “strumento”, “macchina”, e nella situazione specifica di Cecilia questi strumenti sono quelli della tortura a cui fu sottoposta, e che giustificano il testo suddetto.

L’antifona pertanto parla del suo martirio e non della musica suonata durante il suo banchetto nuziale.

Ma l’errore generò la tradizione: dal XV secolo in poi, l’arte raffigurò la giovane con uno strumento musicale.

Alzando gli occhi al soffitto della chiesa si può ammirare il grande dipinto opera di Sebastiano Conca realizzato nel 1725 dove la santa appare in gloria, incoronata dal Cristo, mentre sulla destra alcuni angeli sorreggono un organo: l’opera ha una impostazione agile, una policromia vivace, che portava in trionfo anche la stessa arte musicale così fiorente a Roma in quel periodo (basti pensare alla presenza in città di Arcangelo Corelli, Georg Friedrich Händel, Antonio Caldara, Domenico Scarlatti e Bernardo Pasquini).

Ogni 22 novembre, come da consuetudine, nella basilica trasteverina si celebra una messa speciale dove la musica è protagonista. Vorrei ricordare che, per i visitatori più esigenti, c’è la possibilità di accedere, grazie alle suore benedettine che vivono nell’antico convento, nel coro delle monache posto nella contro facciata della chiesa, per ammirare uno dei tesori più splendidi dell’arte medievale romana: il Giudizio Universale del grande Pietro Cavallini, risalente alla fine del 1200, che ancora oggi lascia stupefatti per l’elevatissima qualità e per gli incredibili colori. Le sue opere pittoriche sono quasi tutte perdute, il Giudizio è il più esteso lavoro superstite di Cavallini, attivo già come mosaicista nella basilica di Santa Maria in Trastevere.

E prima di lasciare gli ambienti silenziosi e antichi del monastero, non dimenticate di acquistare i sacchetti di lavanda coltivata nel meraviglioso e lussureggiante giardino conventuale, invisibile al pubblico, che ospita rose, alberi di arancio e limone da cui le monache ricavano marmellate naturali.

Il nostro viaggio iniziato nei sotterranei di Trastevere si conclude nel grande giardino antistante la basilica, oasi di silenzio, rotto soltanto dal rumore dell’acqua zampillante nella fontana dominata da un antico cantaro romano ricollocato in una sistemazione voluta da Antonio Munoz nel 1929.

 

Di Adelaide Sicuro

Illustrato da Elia Novecento

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