Nel 1783 Giulio Cordara dei Conti di Calamandrana, gesuita trapiantato a Roma per studiare al Collegio Romano, diede alle stampe il “De’ Vantaggi dell’Orologio Italiano sopra l’Oltramontano”, in cui si criticava il sistema di computo delle ore usato dai paesi posti al di là delle Alpi. Il sistema delle ore uguali, articolato su 24 ore della stessa durata, era già comune alla maggior parte dei popoli europei fin dal medioevo, tranne che in Italia, dove l’orologio alla romana a VI ore, che deve questa sua curiosa denominazione alla sua iniziale diffusione nello stato pontificio, impostava la numerazione da 0 = tramonto del Sole fino a 24 = al tramonto del sole del giorno seguente.

Infatti questo sistema è il più facile da capirsi per il viandante durante il suo peregrinare, l’artigiano nella sua bottega, il mercante con le sue vendite e il contadino al lavoro nelle sue terre, quando il suono della campana avverte le ore di luce ancora disponibili e l’ultimo rintocco intima il ritiro nelle proprie abitazioni, imponendo a tutta la Terra un profondo silenzio. La poca precisione, che costringeva ad aggiustare l’orologio ogni due giorni, l’occupazione napoleonica e l’ingresso in un mondo che aveva bisogno di una certa uniformità segnarono la fine di una modalità di computo che aveva scandito il susseguirsi delle giornate per decine di generazioni di italiani.

E chissà se proprio questo non abbia contribuito a scolpire nel carattere dei romani, gli ultimi ad abbandonare l’orologio a 6 ore nel 1846 sostituendo l’annuncio del mezzogiorno con le salve di un cannone, uno dei tratti più imperituri della nostra cultura: l’essere naturalmente in ritardo.

 

di Federico Ciacci

Illustrazione di Enton Nazeraj