Francesco e Valerio, due dei 35 detenuti morti a Regina Coeli dal 2002, che entrambi in carcere nemmeno ci dovevano stare

A Regina Coeli

A fronte di una capienza massima di 624 posti, sono presenti al momento 906 detenuti, di cui una trentina in stato di terapia medico-psichiatrica in un reparto della seconda sezione. Attendono, a volte mesi, di essere trasferiti in una struttura idonea alle loro condizioni. Un sovraffollamento reso ancor più preoccupante dalla carenza di personale. Gli agenti previsti per controllare le 326 stanze della casa circondariale (la gran parte senza acqua calda e riscaldamento) sono 610, ma in realtà quelli effettivamente presenti sono 434. I detenuti sono più del doppio dei secondini, quando il rapporto dovrebbe essere quasi di uno a uno.

Troppa gente salisce lo scalino della Lungara, patente di romanità trasteverina e titolo del giornale interno del carcere, senza tuttavia riuscire a scenderlo. A Regina ci si resta tanto, troppo: dal 2002 al 2018 sono stati 35 i detenuti morti dietro le sue mura. Tra di loro, ce ne sono due che colpiscono maggiormente. Un po’ perché sono scomparsi a pochi giorni l’uno dall’altro e un po’ perché si tratta di un uomo di 80 anni e di un ragazzo di 20. Ma soprattutto perché entrambi in carcere nemmeno ci dovevano stare.

Ladro di biciclette

Francesco Cameriere era nato a Roma il 13 agosto del 1937. Da ragazzo aveva iniziato a lavorare come barbiere, ma la sua vera passione era un’altra: le biciclette. Intendiamoci, Cameriere non era un amante della disciplina di Coppi e Bartali: a lui interessava proprio il mezzo. Riconosceva a prima vista tra tanti il modello di maggior valore, vi si avvicinava e tac, dava un bel colpo secco alla catena che la legava al palo della strada. A quel punto, tutto tranquillo, trascinava le bici a mano verso la sua casa di Monte Mario.

Il ladro di biciclette, che per anni ha imperversato in tutta Roma in cerca di qualche Graziella da grattare o da smontare, arrivato alla soglia degli 80 anni non voleva morire in carcere. Pochi giorni prima di andarsene aveva scritto una lettera a sua moglie: “Tiratemi fuori da qua. Sono vecchio, non ne posso più. Vorrei tornare a casa. Cambio”.

Tutte le istanze di scarcerazione però, compresa l’ultima che aveva scritto di suo pugno, venivano respinte nonostante l’età. “Qui non mi trattano male”, aveva confessato Francesco durante l’ultimo incontro avuto con il suo avvocato, “è come se fosse la mia casa. Gli altri detenuti mi rispettano e mi aiutano, ma non sto bene. Sono troppo anziano. Vorrei tornare libero. Ho scritto al giudice, ma ancora una volta la risposta è stata negativa”.

Francesco si trovava a Regina Coeli per aver accumulato oltre 30 precedenti in pochi anni, con gli arresti per furto che si alternavano a quelli per evasione. Non riusciva infatti a rispettare i domiciliari e non appena poteva usciva di casa per tornare in strada a sgraffignare biciclette o ad aprire i bauletti dei motorini. Ma ormai era noto sia in centro sia in periferia e, ogni volta che veniva sorpreso in atteggiamenti sospetti o in possesso di pezzi di ricambio, tornava dentro.

Il suo ultimo arresto risale all’ottobre del 2015, dopo il quale Francesco, a causa dell’enorme cumulo di pene, non è più uscito. Soffriva di artrosi, psoriasi ed emicranie, con la schiena che ogni giorno si piegava sempre più verso il basso. Una perizia del 2013 avesse escluso che fosse incapace di intendere e di volere, ma un vizio parziale di mente ne aveva riconosciuto l’incompatibilità con il carcere. “Ha impulsi psichici irrefrenabili”, scriveva anche il suo avvocato, “che la moglie, più anziana di lui, non riesce a contenere”.

Nonostante il suo precario stato di salute, Francesco era con distacco il detenuto più anziano dell’Hotel Roma. E così, il 23 aprile del 2017, mentre camminava lungo i corridoi del carcere, il ladro di biciclette è stato colto da un malore improvviso e scivolando in terra ha sbattuto la fronte. Da subito le sue condizioni sono apparse critiche ai secondini, che chiamarono un’ambulanza per trasferire l’uomo al San Camillo, dove si spense quella stessa notte. Secondo le relazioni degli agenti della polizia penitenziaria, l’urto mortale sarebbe stato provocato dall’età di Francesco, che ne aveva indebolito le gambe.

Il sostituto procuratore Alessandro Di Taranto aprì un’inchiesta per omicidio colposo e dispose un’autopsia per accertare che il trattamento sanitario a cui era sottoposto il ladro di biciclette negli ultimi mesi fosse quello adeguato. Si cercò di capire anche il grado di sorveglianza con cui doveva essere seguito passo dopo passo Francesco e venne fatta una valutazione di tutti i passaggi processuali che avevano imposto la detenzione in carcere dell’uomo. Le indagini non ebbero però esito, e la morte del ladro di biciclette, avvenuta a 80 anni tra le braccia di Regina, venne definitivamente archiviata come “incidente”.

Nel posto sbagliato

La morte di Francesco Cameriere è arrivata appena due mesi dopo quella di un altro detenuto di Regina Coeli. Si tratta di Valerio Guerrieri, un ragazzo di soli 22 anni. Il suo corpo è stato trovato dagli agenti della polizia penitenziaria alle ore 23 del 24 febbraio 2017 nella cella numero 67, seconda sezione, terzo piano. Si è impiccato con un lenzuolo alla grata del bagno e a nulla è servito l’intervento dei secondini chiamati a gran voce dagli altri detenuti.

Valerio era finito a Regina dopo essere scappato per tre volte in pochi giorni dalla Rems di Ceccano, in provincia di Frosinone. L’acronimo sta per “Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza”. In pratica si tratta di quelle strutture, gestite con la collaborazione del ministero della Giustizia, che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg).

Da lì Valerio, grazie alla scarsa vigilanza, riusciva a scappare ad ogni occasione buona, ma tutte le volte veniva ritrovato dopo pochi giorni. Dopo l’ultima fuga venne arrestato dai Carabinieri con l’accusa di resistenza, lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento. Un giudice decise allora per la custodia cautelare in carcere, in regime di sorveglianza speciale. Pochi giorni prima di impiccarsi con il suo lenzuolo, Valerio aveva scritto una lettera a suo fratello.

Dopo la sua morte, la madre l’ha inviata all’associazione Antigone, che da anni si batte per migliorare le condizioni delle carceri e dei detenuti, che l’ha pubblicata. “Ciao frate – inizia Valerio – Ti scrivo per dirti soltanto che mi dispiace per tutto. Io qui sto impazzendo, non ce la faccio più. Sono stanco di mangiare, di fare qualunque cosa”. Anche di scappare. “Basta, se io me ne vado via per sempre penso che voi non sentirete la mia mancanza. Voglio andarmene per sempre”.

Di fronte a parole come queste, non si capisce come si sia potuti rimanere sordi al grido di aiuto di un ragazzo di 22 anni finito in modo lampante nel posto sbagliato. I reati contestati a Valerio, infatti, erano legati alla sua fuga dal Rems. Per quale motivo allora non è stato riportato lì? Come si è potuto pensare che la carcerazione potesse essere compatibile con le sue condizioni? La legge stabilisce che la misura cautelare, specie in casi come questi, debba essere l’ultima spiaggia, non una prassi. Sulla morte di Valerio è stata aperta un’inchiesta culminata con l’accusa di omicidio colposo nei confronti di otto agenti penitenziari e di due medici di Regina Coeli.

La motivazione del pm Pisani, che ha condotto le indagini, è concentrata sul tipo di sorveglianza effettuata nei confronti del giovane. L’accusa non ha invece tenuto conto di quello che sembra il punto fondamentale della vicenda: l’illegittimo trattenimento di Valerio in carcere. Il caso si trova attualmente sul tavolo del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, che è chiamato a chiarire a che titolo questo ragazzo si trovava a Regina Coeli ed eventualmente su chi ricade la responsabilità del suo gesto.

La nostra Costituzione parla di carcere all’articolo 27, che esprime, tra altre cose, un concetto molto semplice: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Vuol dire che chi si trova detenuto, qualsiasi cosa abbia fatto, non può subire alcun tipo di violenza fisica o morale ed essere messo in condizione di soffrire o morire. Non solo, la Carta dice anche un’altra cosa altrettanto chiara e importante: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.

Chi si trova in carcere deve essere considerato come una persona in grado di autodeterminarsi e di assumersi delle responsabilità nella gestione della sua quotidianità penitenziaria. Lo Stato dovrebbe lavorare affinché un detenuto dalla prigione ci esca. E che lo faccia con una possibilità di reinserimento nella vita civile in più, dando un senso alla vita detentiva. Perché il carcere non è un pianeta a parte.

Gli ospedali, prima dell’avvento della medicina moderna, erano più o meno dei lazzaretti. Luoghi in cui si finiva quando si era troppo malati per restare a casa, quando si era contagiosi, infetti o incurabili. Se ce la facevi bene, sennò amen. Oggi in ospedale si entra per farsi curare e una volta guariti si esce e si riprende la propria vita. Esattamente come dovrebbe essere il carcere: un luogo al centro della vita e della città, non il luogo del male. Invece le carceri italiane scoppiano. Dentro non si fa quasi mai nulla, non si impara niente di buono e a volte ci si sta così male che vi si muore.

Sicuramente scarseggiano i fondi, le strutture e il personale, ma quello che manca e continua a mancare di più è una visione del carcere diversa da quella di una discarica sociale dove gettare tutte quelle persone che non si vogliono vedere per strada. La società e lo Stato hanno l’obbligo di considerare il carcere come un luogo della città, proprio come l’ospedale. Noi trasteverini, che abbiamo la fortuna di averlo nel nostro rione, abbiamo il dovere di ricordarglielo.

 

 

Di Gianluigi Spinaci

Illustrato da Enton Nazeraj

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