Com’è successo che Trastevere perdesse la propria anima? Com’è successo che Trastevere seguisse l’esempio degli altri rioni del centro storico, come Campo Marzio, Parione, Trevi? Queste sono le domande che ci faremo tra pochi anni. Purtroppo. È difficile immaginare uno scenario diverso da quella Campo de Fiori che oggi si sveglia con un mercato a prova di turista e se ne va a dormire con la chiusura di un recinto di pub a prova, anch’esso, di turista. Trastevere è il nuovo rione da consumare.

Il processo di quella Campo de Fiori fu lo stesso che sta vivendo ora il rione XIII: da quartiere popolare di lavoratori, artigiani, ladruncoli e ragazzini innamorati del pallone a luogo di sfogo di una generazione intera, eh già! la movida violenta è esistita anche lì, per poi diventare il fulcro di un grande dibattito sul conflitto decoro-degrado, finché infine, svuotata dei propri abitanti, è divenuto luogo anonimo di case vuote, botteghe chiuse, negozi standard, pizzerie e pub all’americana.

In tutto ciò c’è una precisazione da fare: tolto il problema della movida violenta, lo stesso processo, come dicevamo, lo hanno subìto gli altri rioni del centro storico, anch’essi ridotti, ahinoi, ad essere vetrina per i turisti e luogo impossibile da abitare per i romani. La movida, ancora una volta purtroppo, non fa che amplificare la questione, o meglio: non fa che polarizzare il dibattito sul solo conflitto che vende copie di giornale, quello di decoro-degrado, e dunque non fa che dare un assist ai politici e agli amministratori, o alle opposizioni e ai comitati di quartiere, per presentare slogan politici e per fare un po’ di spettacolo tenendo sempre a mente le prossime elezioni.

Non si vuole qui sottovalutare il problema della movida che sta, effettivamente, flagellando Trastevere da diverso tempo: quello che si vuole dire è che si tratta di una conseguenza e non di una causa, che bisogna contenerla sì, ma soprattutto nel frattempo lavorare su altri fronti.

I destini di una città e di un quartiere non sono naturali, no, sono frutto di scelte e di direzioni ragionate e applicate. Queste scelte stanno distruggendo visibilmente il nostro territorio perché lo hanno trasformato in pura merce, in un puro consumo. Non bisogna allora poi stupirsi se turisti e romani scelgono un luogo del genere, vuoto e abbandonato anche se ben incorniciato e infiocchettato, per sfogarsi e per lasciarsi andare senza rispetto e senza amore.

Inoltre, il virus, i mesi di chiusura e lo spettro di un nuovo attacco ci hanno mostrato la fragilità di quelle che sono state le scelte degli ultimi anni, tutte in direzione di una monocultura iper intensiva di economia turistica, fra tutte la più fragile…

Al consumo ci piacerebbe contrapporre, detto papale papale, l’abitare di nuovo il nostro rione. Abitarlo, prima di inventare grandi eventi con risonanza nazionale che lo mostrano come un rione allegro e spensierato, significa ripopolarlo. Non è niente di che, non è l’idea geniale del secolo, è soltanto una questione di buon senso. E per ripopolarlo ci sono due fattori, tanto per iniziare, fondamentali: le case e le botteghe. Detto in maniera più ampia: la situazione abitativa e quella commerciale.

 

Riabitare la città storica

trastevere da consumareUna merce, spiega il vocabolario Treccani, è un qualsiasi bene economico oggetto di scambio e di contrattazione. Ricordo che un tempo, passeggiando per le vie del rione, giocavo con gli amici a trovare la casa dove sarebbe stato più bello vivere: attico con terrazza a Santa Maria, secondo e ultimo piano di una bella casa ad angolo a piazza dei Mercanti, palazzetto indipendente in qualche vicolo sperduto tra via della Luce e piazza Santa Cecilia.

C’era chi amava il lungotevere che, a dispetto del traffico, prometteva una vista sugli alberi e sul fiume, anima della città. Io sceglievo sempre il pian terreno, allora esistevano ancora: porta direttamente in strada, qualche sediola e tavolino ed eccolo lì, un cortiletto pubblico dove i vicini si sedevano a parlare, a commentare e a fare tutte quelle cose poco produttive che mi hanno sempre affascinato.

Dieci anni più tardi, il tenore dei discorsi è radicalmente cambiato anche se l’oggetto è sempre quello. Ormai una casa significa reddito, significa mettere una toppa a una situazione economica degradante per alcuni, significa arricchirsi, e non poco, per altri. Le case, dunque, si guardano ancora ma si commentano assai diversamente. L’attico con terrazza a Santa Maria non è più il luogo dove immaginare cene tra amici, o in famiglia, davanti a una vista spettacolare coi ragazzini che giocano all’aria aperta, no, l’attico con terrazza a Santa Maria significa ristrutturazioni, un bagno per camera, terrazzo condiviso dagli ospiti e almeno 200euro a camera per notte.

 

L’architetto Paola Rosati in un intervento durante una riunione del PD Trastevere ha portato una serie di dati e di numeri dal significato palese, proponendo l’unica idea che sembrerebbe avere un senso in questo tragico panorama: “riabitiamo la città storica”.

Nel ventennio dal ’51 al ’71 il centro storico ha vissuto una grande ondata di abbandono passando da 424.000 a 160.000 abitanti e dando inizio al processo che sarà poi definito gentrification per cui il popolo del centro lasciava (costretto e non) le case vecchie per quelle nuove, dove, paradossalmente, l’affare era la casa vecchia.

Il primo decennio degli anni Duemila è stato un altro momento decisivo per la storia demografica del centro di Roma: altri 10.000 abitanti lo abbandonano in favore delle periferie, solo a Trastevere il 13% della sua popolazione. Ma il dato davvero significativo, riguardo allo stesso decennio, è che nel Municipio I il 22% degli spazi abitativi sono destinati a non residenti, a Trastevere, addirittura il 44%: 5.000 e rotti alloggi per residenti sono accompagnati da ben 2.343 alloggi per non residenti. Circa un terzo delle case, dunque, sono ad uso turistico.

Le case di Trastevere, come quelle di tutto il centro storico, di tutta Roma e in particolare di ogni “città turistica”, sembrano essere l’ultima merce rimasta. E chi immaginiamo come acquirente della nostra Trastevere in vendita? C’è poco da immaginare. I centri storici delle città d’arte, da Firenze a Venezia e Roma, sono alla mercé di grandi gruppi d’investimento, che comprano palazzi interi per farci business turistico.

L’ondata che deriva dal boom degli affitti brevi e del turismo mordi e fuggi, fino ad oggi, non è diminuita. Il lockdown e tutto ciò che ne è derivato ci ha mostrato, però, tutta la fragilità di questo “dominio del turista”. Da una parte, vediamo una Trastevere spezzata in due. Da san Calisto a piazza Trilussa, non c’è più nessuno. Locali chiusi o semichiusi, case vuote, piazze e vie lasciate a se stesse. Dall’altra parte non possiamo non aver paura che tutto ricomincerà come prima, e anche peggio. Perché se la crisi sarà dura come si prospetta, probabilmente si continuerà a puntare solo sul turismo e probabilmente chi potrà resistere alla crisi sarà chi potrà reggere botta e chi potrà offrire al residente una buonuscita irrinunciabile. E se così sarà, che ne sarà di Trastevere?

Banalmente: chi voterà gli amministratori se i residenti non ci sono? Chi se ne prenderà cura?

Il problema è che Roma versa in una situazione abbastanza tragica: non si produce lavoro, non si produce ricchezza, molte delle infrastrutture che dovrebbero funzionare, non funzionano. È pieno di persone che guadagnano 800euro al mese in nero, che hanno avuto la fortuna di ereditare una casa e ne affittano una stanza, o tutte le stanze, per arrivare a fine mese. Per un piccolo imprenditore che tenta di costruirsi un futuro quel mercato turistico sembra l’unico plausibile in una città come Roma. Aprire un cinema, una libreria, un fruttivendolo o un giornale di quartiere, in effetti, può sembrare pura follia.

Il problema sono quelle amministrazioni cittadine che si sono susseguite, da ogni schieramento partitico, e che hanno lasciato fare… senza regolamentare il mercato delle case, degli affitti, di quelli lunghi e, soprattutto, di quelli brevi. In nome di un centro storico adibito a evento permanente, a vetrina per un cliente globale. A immagine dei nostri vicini di casa: Campo Marzio, Parione, Trevi, che non sono più città, sono vetrina.

Il problema è che gli affitti, per un potenziale residente, in particolare nel centro storico, sono altissimi, fuori portata. Una stanza singola sta fra i 450 e i 700euro. Il locatore preferisce gli affitti brevi. Per una questione di guadagno? Non solo, perché il guadagno netto del proprietario di casa non è poi così tanto superiore. Il locatore, più che altro, ha paura dei rischi legati alle occupazioni abusive e ai mancati pagamenti. Fatto che complica ancor di più il quadro.

C’è gente che vive per strada, c’è gente che ha bisogno di case popolari, c’è gente che ha stipendi troppo bassi. Allo stesso tempo però, chi ha le case non le dà a questi soggetti perché non è affatto tutelato dallo Stato. Insomma, chi ha le case le affitta al turista per tutelarsi, chi non le ha non può dare garanzie e nel frattempo l’Ater deve mettere in vendita le proprie.

Cosa ne deriva? Che le periferie della città si popolano sempre di più, creando orribili situazioni di guerra fra poveri, mentre il centro storico diventa sempre più un museo, una vetrina per turisti e basta, una merce per il fragile mercato internazionale.

Tornando allo studio dell’architetto Paola Rosati, è interessante notare che nel passato, e precisamente negli anni Settanta sotto la guida del sindaco Giulio Carlo Argan, alcuni tentativi nella direzione auspicata dallo studio sono stati fatti. Per la prima volta, ad esempio, si restaurano nel centro storico case da assegnare a canone sociale, prevedendo anche situazioni abitative di diverso tipo come case famiglia e alloggi per singoli; oltre alla creazione di centri anziani, centri culturali e botteghe artigiane. Provvedimenti, insomma, tesi a riportare il centro storico a luogo di fermento, luogo vitale e creativo, luogo, soprattutto, abitato. Nulla di più attuale, nei bisogni.

Nulla di meno attuale, nei fatti. Negli anni Duemila, il polo di case popolari trasteverino di via degli Orti d’Alibert rischia grosso: l’Ater, indebitata col Comune di Roma, dovrà metterle in vendita a prezzo di mercato, con la possibilità di acquisto al 50% per gli assegnatari, che però dovrebbero far fronte ad una quantità di lavori di manutenzione e ristrutturazione insostenibili.

I quartieri e i rioni, ovunque siano, hanno bisogno di essere vissuti, gestiti, amministrati. Hanno bisogno di rinnovarsi sempre e di creare dei microcosmi autosufficienti. Hanno bisogno, sì, anche del turismo ma di un turismo diverso, che non sia mordi e fuggi… un turismo che possa far innamorare ancora le persone che vengono, nella speranza che vogliano tornarci.

Abbiamo tutti gli strumenti, anche gli immobili, per immaginare un progetto di ripopolamento del centro storico. “Possiamo riportare l’edilizia economica popolare nel centro storico, possiamo intervenire sul patrimonio pubblico dismesso, si possono mantenere le destinazioni residenziali, sospendere i cambi di destinazione d’uso e favorire l’acquisto di alloggi da parte del comune da cedere in locazione a canone agevolato. Si può agire sul patrimonio privato degli affitti rivolti ad abitazioni o ad attività commerciali diverse, attraverso un meccanismo che modifichi il sistema delle convenienze, lavorando sulle leve fiscali”. Insomma, di possibili lavori, per un’amministrazione, ce ne sono, come ci spiega Paola Rosati.

Bisogna però, come in tutto ciò che ha a che fare con la politica, che ci sia la volontà; ci vuole varietà e creatività per opporsi alla monocultura del turismo che sfascia più che costruire; bisogna, insomma, non considerare i territori come dei luoghi da sfruttare e consumare ma come dei luoghi da abitare e da mettere in comune. Partire dalle case, dalla casa che è un diritto e non un dovere, come ci è invece sembrato in questi mesi vissuti al limite, i mesi del lockdown e del virus che ha spazzato via ogni certezza di un modo votato soltanto al consumo.

 

Buttadentro e piatti di folklore a buon mercato

trastevere da consumareNell’immaginario collettivo, Trastevere, è un luogo da sempre associato al rituale romano della magnata in compagnia. Le vecchie immagini dalle cene in piazza o nei vicoli e i ricordi delle osterie frequentate dai fagottari di turno sono solo l’inizio di una storia che negli anni ha generato una situazione insostenibile e che oggi si palesa nell’educato e impersonale: “buongiorno signore”, pronunciato dal buttadentro di turno. Di quegli anni sembra rimasta solamente la voce del coperto sul conto del ristorante la quale era appunto riservata ai cosiddetti fagottari che usufruivano del posto a tavola.

Dagli anni Settanta ad oggi, la crescita della domanda turistica ha creato un’enorme opportunità di sviluppo per il quartiere e di conseguenza l’offerta ricettiva e gastronomica si è andata via via espandendosi e rinnovandosi. Una rivoluzione però, basata sul turismo di massa e priva di una visione lungimirante, che ha trasformato la ristorazione romana, salvo le poche realtà storiche e nuove che resistono e mantengono un legame con il territorio e la comunità (molte delle quali ci vantiamo di sponsorizzare sul Ventriloco), in una parossistica rappresentazione senza anima della Roma de ‘na vorta.

Tutto questo, aldilà dell’effetto sulla qualità del servizio e dei prodotti offerti, ha di fatto paralizzato il quartiere e lo ha reso schiavo di una logica non più funzionale alla comunità che lo vive. Ad oggi, a Trastevere, nonostante i tentativi tardivi dell’Amministrazione comunale di porre un freno alla trasformazione di un intero quartiere in una mangiatoia per turisti, si contano quasi 500 attività, con licenza di somministrazione, o laboratori artigianali con superficie destinata al consumo alimentare, (sono stati esclusi dal calcolo, con il beneficio del dubbio, i 330 esercizi di vicinato con superficie destinata al consumo alimentare) sulle oltre 1.700 attività commerciali censite (fonte: Roma Capitale Open Data).

Provate per una volta a contare il numero di ristoranti, pizzerie, fast-food, cocktail bar, pub, minimarket (Bangla) di in una qualsiasi via di Trastevere o del Centro Storico di Roma, s’intende. Per fare un esempio, a Via San Francesco a Ripa che è lunga circa 380 metri ho contano 29 esercizi commerciali destinati alla somministrazione e preparazione di cibo e alcolici. Quasi un locale ogni 10 metri. Quello che segue è un giudizio personale di chi scrive.

Tendenzialmente c’è da dire che i romani hanno sempre tirato dritto di fronte ai cortesi inviti dei buttadentro o alle pizze in plastica poste in bella mostra all’esterno dei locali, eppure, in questi ultimi anni, è accaduto un fenomeno particolare. Succede infatti che nel giro di qualche anno, compaiono nel quartiere molti ristoranti piuttosto simili e al posto di alcuni storici ristoranti di quartiere, due in particolare, con diciture un po’ bizzarre, Tonnarello dal 1876 (in realtà locanda dal 1876) e Nannarella dal 1930.

Questa cosa mi colpì e, chiedendo ai vecchi del quartiere, nessuno si ricordava i nomi di questi locali. Inoltre, stavolta, nonostante la solita ostentazione di romanità e gli immancabili buttadentro, anche di questi tempi, in un quartiere quasi svuotato di turisti, la sera si vedono file chilometriche per sedersi al tavolo di quelli che avevo ingenuamente etichettato come trappole per turisti. Una turnazione frenetica di clienti ai tavoli in una logica quasi da fast-food, il tutto condito da migliaia di recensioni entusiaste dell’esperienza.

Questi ristoranti, tutti più o meno simili tra loro, alcuni dei quali recentemente rilevati dagli storici proprietari, e che ostentano tradizione e storicità sono tutti nelle prime posizioni delle varie piattaforme di recensioni online. E allora me le sono andate a spulciare e tra quelle più negative compare molte volte l’insistente richiesta ai clienti di pubblicare una recensione sul locale.

Detto questo, che per carità non è un reato, attraverso una semplice ricerca sulle partite IVA di tutti quei locali con i buttadentro e con l’immagine piuttosto simile, molti di voi li avranno notati (ne ho contati 7), si scopre che sono tutte realtà controllate da uno stesso amministratore unico. Il giro d’affari complessivo per il Paperon dei Paperoni della ristorazione trasteverina, nel 2019, è stato superiore a 15 milioni di euro. Parliamo quindi di un vero e proprio colosso della ristorazione romana, una catena di ristoranti, di fatto, basata su un’immagine stereotipata della cucina romana e della ristorazione trasteverina ma che di caratteristico per davvero ha ormai ben poco.

Certamente questo è un business che funziona, produce enormi ricavi e numerosi posti di lavoro e da una visione strettamente imprenditoriale non può che considerarsi un successo. Tuttavia, viene da chiedersi se è questa l’immagine che Roma e Trastevere vogliono mostrare al mondo. Viene da chiedersi se questo fenomeno sia reversibile o piuttosto se siamo destinati a veder scomparire quel poco di autentico e innovativo, che ancora resiste nella ristorazione romana, ad opera di una logica imprenditoriale senza anima e senza un effettivo legame con il territorio. Costruire una forma di collaborazione tra tutte le realtà, storiche e non, che, attraverso la qualità del loro lavoro, dimostrano di costituire un valore aggiunto per il quartiere e la comunità che lo vive è forse oggi l’unica strada da seguire per preservare l’anima dal Dio denaro.

 

 

Di Saverio Cambiotti e Andrea Cori

Illustrato da Matteo Wuarky

 

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