e altre storie da bar…

 

MISTER MATTINA

Il tipo che se ne sta tutta la mattina al bar e che indossa cravatte dai colori impossibili, quello tutti lo chiamano Mister Mattina. Ogni mattina è lì al bancone. Che poi è un po’ suo quel bancone, un po’ suo quel bar.

“È una certezza come il sole che sorge” mi dice Salvatore Racconigi. Con lui faccio colazione e poi vado al lavoro. Un giorno offro io e guida lui, un giorno al contrario.

“Due cappucci e due cornetti semplici”.

Mentre beve, Salvatore sfoglia la Gazzetta dello Sport.

“Niente di nuovo, qui parlano ancora di quel gol annullato…”.

Poi si ferma e guarda alla sua destra.

“Bella cravatta pure oggi…” bisbiglia.

E parte con la storia di Mister Mattina.

“Quello lavorava l’orto della madre e le dava una mano a vendere la verdura. Proprio dietro i campi di mio zio. Hai presente? Dove c’è il capannone di Pignetti…”.

Faccio cenno di sì.

“Stava tutto il giorno con una specie di tuta da lavoro, sempre sporco di terra. Sorrideva a tutti quelli che mettevano piede in quel tendone, che la madre aveva messo su per vendere quattro carciofi. Era gentile con i clienti, perché lei lo teneva d’occhio senza tregua”.

“E poi?” chiedo.

“E poi niente. La madre è morta. Quello si è affittato il terreno ai Pignetti, che ci hanno messo su il loro capannone. Ed ora è diventato Mister Mattina: se ne sta tutta la mattina al bar a guardare la polacca che serve al bancone”.

Mentre usciamo dal bar aggiunge: “È quello che dico sempre a mio zio: di mollare i campi e affittarsi il terreno”.

“Ma di pomeriggio che fa?” chiedo.

“Secondo me dorme tutto il giorno. Che altro dovrebbe fare un tipo del genere?” mi dice, mentre saliamo in macchina, prima di farci ingoiare dal traffico velenoso della città.

 

 

OMBRE

E così ero andato con mio padre al bar dell’incrocio a farmi un caffè e a dare un’occhiata ai giornali.

Il cielo era grigio e anche le persone intorno erano grigie e il barista aveva lo sguardo grigio e pure i caffè non erano neri, ma grigi.

In effetti erano giorni un po’ particolari per me e, dopo l’operazione, tutto era senza colori e sbiadito come se stesse andando alla malora.

In realtà era già andato tutto in rovina e non mi restava che prenderne atto.

Al bar si parlava di un uomo gigantesco che era passato di lì poco prima.

A sentire una signora, aveva una faccia da indiano.

Un altro disse che aveva gli occhi di un cieco.

Il barista lo definì un alieno e disse proprio: “L’alieno è venuto qui a fare colazione”.

Mio padre fece cenno di andarcene a casa.

In quel momento vidi un’ombra altissima appoggiarsi al bancone e guardarci uscire dal bar.

Dopo l’operazione infatti non solo mi appariva tutto sbiadito e senza colori, ma mi capitava di vedere ombre altissime che comparivano all’improvviso e mi fissavano con occhi impauriti.

 

 

QUEL BAR FALLIRÀ

 Ogni tanto si andava a Vetralla a vedere come procedevano i lavori del bar di mio zio. Mio padre diceva come la pensava sul pavimento o sulle luci e poi ce ne tornavamo a casa. Mia cugina mi guardava con i suoi occhi azzurri e io mi sentivo felice. Aveva diciassette anni come me.

In autunno inaugurarono il bar e io mi presentai in giacca e cravatta. Era la prima volta che me la mettevo e per la prima volta vidi mia cugina in minigonna.

Gli occhi erano sempre azzurri e mi piacevano, ma non erano più gli stessi e anche il suo profumo era diverso.

Mio padre aveva scherzato per tutto il viaggio.

Non avevo mai capito perché fosse così allegro quando andavamo da mio zio.

C’era un rinfresco e molta gente del paese.

Un paio di ragazzi più grandi di me continuavano a scherzare con mia cugina.

Molti si bevevano qualcosa e stavano nella veranda.

Mio padre prese mia cugina per mano e la portò fuori.

Quando lei rientrò nel bar aveva sempre gli stessi occhi che mi piacevano, ma era triste.

Tutto il viaggio di ritorno mio padre aprì bocca solo per ripetere: “Quel bar fallirà in un paio di mesi”.

 

 

BAR DEL VENTI

La barista era una vecchia grassona. Mi servì il caffè come se mi stesse facendo un favore. In realtà mi ero pentito fin da subito di essere entrato in quel bar-baracca.

“Me lo porto fuori” dissi alla vecchia.

Mi fece un cenno con la testa.

Portai la tazzina di caffè fuori, in una specie di veranda sulla strada. Vidi l’insegna: Bar del venti.

Rientrai e domandai “Perché bar del venti, signora?”.

“Te ne importa veramente qualcosa?” mi sputò addosso una rabbia antica.

Allora chiesi dove fosse il bagno.

Quella mi guardò con disprezzo e si allontanò.

Poco dopo ritornò con le chiavi e mi disse che dovevo uscire, perché il bagno era all’esterno.

Fu in quel momento che decisi di farlo.

Una volta fuori chiamai la vecchia grassona, la presi con forza e la trascinai nel bagno.

Lei non fece resistenza come si aspettasse qualcosa del genere e rimase dentro, senza dire una parola.

Ripassando davanti al bar vidi che stava entrando una signora.

Voleva un bicchiere di tè freddo.

Io glielo servii con tutta la gentilezza di cui ero capace, prima di rimettermi in macchina e andarmene a gran velocità.

 

 

 

 Di Emanuele Kraushaar

Illustrato da Fabio Malpelo

Quel bar fallirà in un paio di mesi e Bar del venti (con il titolo Come si aspettasse qualcosa del genere) sono già apparsi in Tic, Atì Editore 2005.

 

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