Quartieri di Roma | L’aeroporto di Centocelle

Agli inizi del Novecento, al visitatore che arriva da fuori, magari da quell’Italia del Nord già da decenni gettatasi nelle braccia dell’era industriale, la periferia di Roma deve apparire come un luogo fuori dal tempo. Questa campagna sconfinata è una distesa verde a perdita d’occhio, una tabula rasa dove sorgono, come stralunate impronte arrivate da altre epoche, i resti di acquedotti, mausolei o ville romane. Oltre le porte delle mura aureliane, la giovane Capitale del Regno d’Italia conserva ancora intatti quei paesaggi bucolici e onirici che tanti artisti dal Nord Europa hanno amato visceralmente in secoli di grand tour e viaggi culturali.

Sono passati anni da quei baccanali folkloristici allestiti tra i ruderi di un passato glorioso, eppure quel fascino trasandato e sentimentale in cui la natura spontanea si sposa con i resti abbandonati di grandi civiltà, per chi considera Roma solo una statica stampa ad olio, è sempre lì, immutabile. In questo libro verdissimo, ad un passo dal giovane cuore di una nazione adolescente, l’unica forma di vita sono i pastori che, testimoni di tradizioni millenarie, continuano a frequentare greggi e pascoli, convinti che tutto questo rimarrà così per sempre. Ogni narratore sa che, in ogni storia, i grandi punti di svolta arrivano nei momenti e nei modi più inaspettati. Ed è così che le pecore romane e i loro pastori, in una mattina della primavera del 1909 si sono trovati davanti a qualcosa di straordinariamente inaspettato.

Al centro di un campo incolto, gentilmente offerto dal Principe Torlonia, proprietario dei terreni del circondario, un enorme e strano veicolo è fermo. Un tipo dalla buffa parlata, un americano, freneticamente gli gira intorno coordinando con ampi gesti un gruppo di uomini che spingono quello che a tutti gli effetti sembra un complicato aliante, per la coda e per le ali. Una folla di curiosi, tutti eleganti in divisa o con abiti da grandi occasioni, osserva la scena in trepidante attesa. L’americano, dopo aver traccheggiato con il motore del veicolo ci monta sopra e lo strano aliante, un po’ goffamente, comincia a muoversi da solo.

La folla si allontana agitata ed eccitata. A poca distanza da loro un cineamatore sfoggia un’altra strana invenzione di quegli anni, una rudimentale cinepresa, che riprende con dovizia tutta la scena, pronta a catturare il momento epocale, il miracolo. Che all’improvviso avviene. È complicato immaginare cosa può essere passato per la testa ai pastori rimasti incuriositi dalla scena. Lo strambo veicolo, guidato da quello straniero così irrequieto, infatti, dal nulla, dopo aver guadagnato velocità, dal nulla, come un uccello, ha spiccato il volo. A terra il ricco pubblico è entusiasta dello spettacolo straordinario per cui hanno pagato una cifra astronomica per l’epoca. L’americano, che quelle cinquantamila lire sa di essersele guadagnate, è abituato da anni a questo genere di performance e gestisce il volo con grande padronanza e anche un po’ di falsa modestia.

In fin dei conti è un onore aver attraversato l’oceano atlantico per portare il futuro nella culla della Civiltà. In questa assolata mattina di aprile del 1909, infatti, Roma, la Città eterna che nella sua storia millenaria ha visto imperatori, barbari, martiri e geni, sorvolata dal Flyer di Wilbur Wright, entra finalmente nel Ventesimo Secolo.

Probabilmente nel ricordare quello che è accaduto il 19 aprile 1909 sui campi del Torlonia nei suoi possedimenti di Centocelle ci siamo lasciati un po’ prendere dall’immaginazione. Sta di fatto che, rivedendo i commoventi filmati d’archivio realizzati quel giorno non crediamo di essere andati troppo lontani dal raccontare l’incredibile felicità e lo stupore infantile che ha attraversato gli animi di quanti si trovarono ad assistere di persona al primo volo decollato nella Capitale d’Italia. La storia dei voli italiani di Wilbur Wright, considerato convenzionalmente insieme al fratello Orville come l’inventore del primo veicolo a motore in grado di volare, è una storia più legata a grandi movimenti industriali che una favola dal sapore pioneristico.

L’americano arriva a Roma, infatti, ingaggiato su iniziativa del Circolo Aviatori, un club di facoltosi appassionati della nascente arte del volo, composto da aristocratici curiosi e intelligenti uomini d’affari. Il più ambizioso tra tutti è l’industriale Giulio Macchi di Cellere che, intuendo la portata dell’affare, cerca un evento dall’impatto colossale per portare il business dell’aereo anche in Italia. L’intuizione dell’imprenditore è perfetta. La dimostrazione del veicolo alle autorità italiane presenti si rivela un successo, persino l’austero Presidente del Consiglio Sonnino non si tira indietro dal provare l’ebbrezza di questo inedito viaggio. Addirittura Vittorio Emanuele III e la Regina Elena assistono meravigliati all’esibizione. Conquistati anche i sovrani il più è fatto. Il giovane Stato italiano è pronto a seguire la “moda” dell’epoca e a gettarsi capo e piedi nell’avventura del volo.

Tra i servizi richiesti a Wright, oltre alla dimostrazione pratica della sua invenzione, è richiesto anche l’addestramento particolare a un giovane soldato, Mario Calderara, diventato il primo aviatore della storia dell’Esercito italiano. Forte degli insegnamenti dell’aviatore americano, Caldara è di fatto il “primo uomo” dell’aeronautica del Regno.

Il neo-pilota è chiamato anche a comandare la Scuola militare di Centocelle, il primo centro d’addestramento dove gli italiani cominciano a conoscere il volo e a lanciarsi in missioni ambiziose, acclamate tutte come eventi incredibili dai giornali e che lasciano regolarmente a bocca aperta il vasto pubblico, pronto a innamorarsi incondizionatamente di questi eroi volanti. È da Centocelle che nel 1920, interpreti dell’ennesima nuova provocazione estetizzante ideata dalla mente estrema di Gabriele D’annunzio, 11 velivoli partono per compiere l’impresa di un volo intercontinentale tra Roma e Tokyo, Gli unici a portarlo a termine sono il pilota Arturo Ferrarin e il motorista Gino Capannini, a bordo di un Ansaldo SVA 9, dopo 112 ore di volo e numerosi scali.

Questo periodo mitico, fatto di imprese inaudite e aviatori pionieri, finisce presto. La Scuola diventa presto l’Aeroporto di Centocelle, il primo d’Italia, uno dei fiori all’occhiello della propaganda esibizionista del Regime di Mussolini. I fascisti, sbronzi da una deviata idea del volo come supremazia politica, arrogante sopraffazione. Un’ideologia rappresentata plasticamente anche dalle avventure aeree di Italo Balbo, il gerarca aviatore tanto detestato dal Duce per la sua popolarità. Il giovane aeroporto diventa il prototipo di un nuovo concetto urbanistico, un nuovo locus perfetto per le città del posticcio futuro mussoliniano, dove il progresso ostentato è distopia. Questa centralità è la condanna per l’Aeroporto di Centocelle.

La sua importanza logistica lo rendono, durante la Seconda Guerra Mondiale, un bersaglio privilegiato per gli attacchi degli Alleati che, nella terrificante stagione dei bombardamenti istaurata il 19 luglio del 1943, non perdono occasione di colpire gli hangar e la flotta aerea presente, specie quando, con l’occupazione nazista di Roma l’aeroporto si riempie dei veicoli della Luftwaffe, la forza che sta tenendo gli americani lontani dalla Capitale. Trascinato dalla disastrosa sconfitta in una rovinosa irrilevanza, l’Aeroporto attraversa il dopoguerra in una sostanziale decadenza. La nascita di Aeroporti civili più moderni e una conversione totale in una vita amministrativa, hanno trasformato l’Aeroporto Francesco Baracca, dal nome dell’eroe-pilota della prima guerra mondiale, in un anonimo segno di un passato glorioso. Uguale a una delle tante “zone militari invalicabili”, oggetti urbanistici misteriosi, l’Aeroporto è ormai solo scenografia. Un ex luogo mitico fagocitato da un quartiere brulicante vita che, pur ignaro dei grandi sogni di un secolo fa, forse conserva ancora nel proprio DNA la volontà di assaltare il cielo.

Di Luca Marchetti

Illustrazione di Marta Bianchi

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