RACCONTI TRASTEVERINI

Quella sì che se prospettava come ‘na mattinata de merda. Come avevo potuto lasciarmi convincere? Come, mi chiedevo. Non se sa cosa s’erano messi in testa tutti. Da due settimane mi facevano ‘na capoccia tanta: “Paolé te devi trovà un lavoro”, “Paolé te devi sistemà”, “Paolé almeno ‘na donna trovatela”, “A Paolé l’astrologo non è un lavoro”, “A Paolé”, “A Paolé”, “A Paolé…”. S’erano messi d’accordo? Ma li morté. Da due settimane tutto er bar, la famiglia mia, s’era presa in carico ‘sto fatto der lavoro. Che je ne fregava? Ho provato a ribattere, ma piano piano m’hanno inculcato n’ansia che non avevo mai provato in vita mia. Fino ad allora me ne stavo tranquillo co’ le mie convinzioni, non avevo bisogno di niente, lavoravo al bisogno, ‘na svolta prima o poi sarebbe entrata… nel frattempo mi godevo le mie libertà e la possibilità de fà er cazzo che me pare. Stavo tanto tranquillo, senza stabilità, o almeno non intesa come dicevano loro: posto fisso, entrate fisse e poi nel tempo libero, se rimane, si fa quel che pare e piace. Eh, no! Per me non era così: “Io voglio fà er cazzo che me pare sempre e poi, se avanza tempo o se ho proprio bisogno, posso pure lavorà”, gli rispondevo. Questi però insistevano e me tartassavano: “Ma non c’hai paura?”, “E da vecchio come fai?”, “E la pensione?”, “Non è che a settant’anni te pòi mette a fà er barista pe’ sopravvive”, “E se te fai ‘na famija, chi ve mantiene?”. Io manco ce pensavo, li mortacci loro, e invece poi, piano piano, la notte, i pensieri hanno cominciato ad invadermi da tutte le parti, me se arrampicavano addosso e li sentivo ovunque. Me pareva d’esse assalito da milioni di formiche che dai piedi, passando per le orecchie, arrivavano fin dentro ar cervello. Insomma, era ‘na situazione terribile che non potevo più controllà, pieno de ansie mai avute prima. Così sono arrivato a quella mattina. Incravattato che quasi soffocavo, sono sceso dall’autobus e mi sono avviato verso ‘sta porticina che avrebbe potuto garantirmi un futuro sicuro. L’annuncio me l’hanno trovato gli amici der bar: ‘posto vacante, cercasi personale’. ‘E vabbè, annamo, provamo!’, me so detto. Ho aperto la porticina e me so’ ritrovato in uno stanzone, ‘na specie de sala d’attesa dove ce stava tutta gente sudata e agitata che se guardava intorno o provava a sbirciare dalla porticina accostata ed origliare le voci all’interno. Avevano evidentemente già cominciato coi colloqui. Non avevo la più pallida idea di quale tipo di lavoro si trattasse, ma ormai ero dentro e più l’ansia saliva più rischiavo di diventare aggressivo. Ho sbirciato pure io ma sono riuscito a vedere solo ‘na donna seduta co’ le mani sui braccioli che, apparentemente, non trovava la posizione comoda, porella.

“Dev’esse quella che fa i colloqui”, pensai.

 

Era tutta la mattina che stavo seduta in quel loculo stretto. Avevo il culo sudato su quella cazzo di sedia girevole di finta pelle. “Neanche un ufficio tutto mio mi merito dopo anni di onorata carriera. Sempre puntuale, a lavoro con la febbre, un solo scatto di anzianità in 19 anni. Sti pezzarculari. Vai te Giannella a fare i colloqui, dicono. Di te ci fidiamo, dicono. Sei una colonna portante. Mortacci vostra.”, pensavo. Mi mancava svegliarmi a mezzogiorno, non sapere cosa fare durante tutta la giornata. Tutto per quei cazzo di soldi, che poi che cazzo ci faccio se non ho il tempo di spenderli? Volevo tornare a vivere con calma, senza pensieri, futuro futuro, come se avecce il posto fisso garantisse qualcosa. Sì, garantisce magagne, ecco che.  Me ne avessero mandato mai uno bono. Tutti imbellettati col colletto stretto e la faccia paonazza emozionata sudaticcia da bietoloni. Paralizzati nel loro attanagliante disagio, con le gocce di sudore che cadevano sul loro curriculum stretto tra le mani tremanti, “la prima impressione è quella che conta”, mi ripetevo. Appunto, quale prima impressione, questi non si saprebbero trovare il culo con tutte e due le mani, stoppati dalla pressione. Ma quale pressione? Come posso farti entrare nell’azienda se pare sempre che stai per dare di stomaco senza neanche aver cominciato a parlare. Nella vita ci vuole entusiasmo cazzo. Uno addirittura storse il naso perché avevo acceso una sigaretta. Nel mio ufficio! che non era ufficio, ma pur sempre il mio spazio. Braccia levate all’agricoltura. “‘Sti giovani non c’hanno voglia di fà niente. Manco le bollette pagano. A casa co’ mamma e papà fino a 45 anni senza sapesse fà un piatto de pasta. Sfigati”, pensavo.

“Avanti il prossimo”. Paoletto Lion si chiamava. Che nome di merda.

 

“Lo sai che c’è? – ho pensato- Ma sti cazzi.” Avevo perso du’ ore la mattina pe’ fà quer cazzo de nodo della cravatta che pareva più che altro n’accrocco de roba strana. Me stava a soffocà: “io me la levo e ‘sti cazzi”. Me la sono ficcata in tasca e chi s’è visto s’è visto. Porco giuda avevo preso tre autobus p’arivà là. Ma che c’ero annato a fà, da lavorà nun ce pensavo proprio. Stare lì un’ora a parlare e a farsi giudicare da ‘na stronzetta frustrata, “che ormai c’avrà er culo incastrato in quella sedia demmerda. Manco me vedrà che già m’odierà”, mi dicevo. Pe’ non parlà della stanza d’attesa: piena de ‘sti ciarlatani, bamboccioni. Ce stava uno tutto impimpinato, je strabordava er grasso der collo dar colletto della camicia. “Ma che è, ma non se vergogna a presentasse così”. Non ho mai capito come pretendeva che lo pijassero a lavorà. Me ne stavo lì, tutto sull’attenti, e arrivava ‘na vocetta strana, tutto naso, che non se fermava più. “Avanti er prossimo”, diceva. Mortacci sua… me stava a fa venì er mal de testa. “Avanti er prossimo”, “avanti er prossimo”, “avanti er posiimo”.

“Ao, e amo capito, avanti er possimo!”

 

Ed eccolo là Paoletto. ‘N sercio. Immobile, pareva ‘n secchio de ghisa, un nano da giardino, un disegno bidimensionale. Però non mi sembrava emozionato. Anzi, me guardava come se je venisse da ride. Senza manco la cravatta, co la camicia tutta aggrinzita, “chissà se ‘sto scemo s’è accorto che c’ha na patacca de caffè sulla panza”, pensai nitidamente. Gli ho fatto cenno di sedersi e come un ragazzino ha iniziato a fare su e giù co’ la sedia ad aria compressa, azionando la leva sotto al culo. In effetti è una cosa che faccio sempre pure io, quando però so convinta di non esser vista. Già avevo letto sul curriculum che faceva l’astrologo. “Che cazzo me l’hanno mandato a fa sto coso a me?” mi chiedevo. Avrei voluto chiedergli che anno sarebbe stato per l’ariete, ma tanto già lo sapevo che si prospettava un anno di merda, ed essendo ariete non volevo averne conferma.  Lo sguardo vispo, il sorrisetto impertinente e quel suo fare indifferente in situazione di comune disagio mi indispettiva parecchio. Me pareva un gaggio. Eppure, aveva un qualcosa. Cercavo, da brava Ariete, di non far vedere che mi stuzzicava la curiosità, ed ho iniziato prepotente facendogli quella domanda per cui tutti si paralizzano, a cui nessuno mi ha risposto mai come voglio. Gliel’ho buttata sul tavolo con arroganza: “Come ti vedi tra cinque anni?”

 

“Ammazzala questa com’è aggressiva. Manco ‘Salve’, ‘buongiorno’, o che so io. ‘Na cosa qualunque, poteva dirla.” Vabbè che ero rimasto du’ ore impalato mentre me chiamavano: ma pure loro potevano dì “Avanti sor Paolé”, invece che “avanti er prossimo.” E chi è ‘sto prossimo? Vabbè che appena me so’ seduto non ho resistito e me so’ messo a fà su e giù co’ la sedia, ma chi ce resiste a non giocà co’ la levetta der su e der giù? È vero pure che sta bella moretta co’ l’occhiali in punta de naso e le forme tutte al punto giusto, prima d’aggredimme co’ sta domanda infame, come me guardava… S’era fissata proprio, è rimasta du’ minuti zitta a guardamme. Ma mica nell’occhi eh! “Questa, te lo dico io, o je piace tanto la camicia mia o me sta a guardà il pacco”, ho pensato lì per lì. Poi s’è ripresa, s’è imbarazzata e m’ha aggredito. Eh, ma le donne so’ così … Prima s’imbarazzano e poi aggrediscono. Figurate. “Signò, sto de qua eh!”, quasi mi scappò.

E come me vedevo dopo cinque anni? Li morté… ma che ne so. Faccio l’astrologo, mica l’indovino. “Questa è ariete sicuro, n’ariete infame. Figurati. Se mette in imbarazzo da sola e poi me viè sotto coi pezzi da novanta. Mo se ne uscirà co’ na roba tipo li sogni nel cassetto? Ma vattela a pijà ‘nder culo. Io c’ho da sopravvive ma quali sogni”. È vero, stavo per incazzarmi, ma poi mi sono controllato e dopo aver farfugliato un po’, dopo aver provato un paio di volte a dar voce al fiato senza successo, alla fine j’ho risposto, pure perché me cominciava a guardà storto.

“Me vedo bene signorì, me vedo piuttosto bene, sperando che sia ancora vivo”, j’ho detto. Porca vacca, non m’era uscito niente de mejo.

 

Niente, non s’era scomposto manco di una virgola. Nessun cenno di cedimento. Lo dovevo mettere più alla prova. Mi so’ accesa una sigaretta, “tanto questo se vede che fuma, c’ha le dita gialle”, ho pensato. Mi so’ levata anche le scarpe e la giacchetta. L’ho fissato per un minuto buono. Niente. Ogni tanto abbassava lo sguardo che rimbalzava sulle sise. E proprio quando stavo per cedere, proprio quando stavo per dirgli che mi ero rotta il cazzo di fare colloqui e che volevo solo andà a mangiare, ha squillato il telefono. Sicuramente so’ quelli del toner in ritardo con la consegna, degli stronzi con cui litigavo sempre. Ho alzato la cornetta, gliel’ho passata e gli ho detto: “Gestiscila te”. Fra a me e me, nel frattempo, fremevo nel vederlo finalmente tribolare: “Mo te ce vojo, sallucchiò”, ho pensato.

 

“Ao ma le solite domande? Nome, cognome, curriculum, grazie, arrivederci, le faremo sapere e cazzi vari no? E che so venuto qui pe’ fà il lavoro a questa?”, ho pensato prima di eseguire il suo ordine. “Pronto?” Dall’altra parte m’ha attaccato ‘n pippone infinito n’omo co’ ‘na voce cattiva e roca. “Aspetti n’attimo che non c’ho capito niente”, j’ho detto. Ma quello ormai era partito pe’ la tangente. “Senta noi abbiamo grandi quantità di lavoro… altri hanno la precedenza… voi non pagate mai in tempo… arriva quando arriva…”, diceva quello. Ma a me mica m’andava de controbatte’. Ho messo n’attimo la mano sulla cornetta, mentre quello continuava co’ ‘sta sviolinata de scuse e de attacchi allo stesso tempo, e mi sono rivolto alla mia bella moretta: “Senta npo’ questo non ve vole portà er toner pe’ le stampanti. Dice che tanto non ve trova mai, che non pagate mai in tempo, che non sapete lavorà e quindi lui se la prende comoda! Dico io ma se non sapete lavorà voi allora stamo freschi, e che ce sto a fà qua?”. Capirai… già al primo ‘dice che’ je s’era trasformato er viso, ar secondo è diventata tutta rossa e all’ultimo me voleva staccà er telefono dalle mani co’ la bava alla bocca pronta ad azzannà quell’infame manco fosse un pitbull. “Ferma là! – j’ho detto stoppandola pure con la mano – Tanto mica se pò sbranà er telefono, ce penso io”. Ho ripreso la cornetta e e me lo so ritrovato ancora lì a sciorinà fiumi de parole senza né capo né coda. Doveva esse la sua tecnica, parlà a rotella finché nun je davi ragione. Capirai… sai quanti ce n’avevo ar bar sotto casa che so’ così? “Zitto npo’ – j’ho fatto – ho capito, ho capito. Senta faccia npo’ come je pare. Sti cazzi der toner pe’ la stampante. Se non ce lo porti entro du’ ore pe’ me se ne può pure restà lì a marcì insieme a lei”. Ho attaccato la cornetta e me so’ guardato la mia bella moretta coll’occhiali in punta de naso.

 

Travolta come Mufasa dagli gnu da un’indomita voluttà mi sono ritrovata a guardarlo incredula mentre il broccolone attaccava la cornetta con veemenza sbuffando un “E che cazzo” quasi soddisfatto. Me lo sono immaginato in un secondo che rovesciava tutta la scrivania, me strappava la camicia e mi prendeva sulla fotocopiatrice. Meglio di qualsiasi romanzo erotico. Tinto Brass unghia del mio mellino, che si aggira co’ le pattine a spicciamme casa. È incredibile quanto la rabbia mi emozioni. Sarà che sono un segno di fuoco. Ma invece no, mi sono trattenuta facendo un respiro profondo, sono tornata ad un passo dalla frigidità, assopito tutti i miei istinti carnali, gli ho allungato la mano (per stringere la sua) e con il sorriso meno languido mai uscitomi, nonostante i pensieri impuri, gli ho detto con voce improvvisamente roca simil post coito: “Il posto è tuo”.

 

“Il posto è mio?”. Non ho più detto una parola, mi sono alzato, stordito, le ho stretto la mano, mi sono voltato e ho cominciato a camminare verso la porta. L’ho aperta e me ne sono andato. “Ma non sai manco che lavoro è…”, aveva provato a gridarmi dietro, quando ormai avevo deciso di seguire il mio istinto, sapendo di lasciarla di stucco. Me so’ rivenute in mente le risposte che avevo dato ai miei amici del bar, la mia famiglia. I pensieri e le ansie, tutte quelle formichine, hanno ricominciato a camminarmi su per il corpo, di nuovo dentro le orecchie, di nuovo fin nel cervello. Ma le ansie, stavolta, si erano capovolte ed io sentivo che mi stavano salvando la vita: otto ore al giorno, tutti i giorni, a fare quel che ti dicono. A fare cose inutili, pratiche, rituali senza anima. Il principio della morte. Dice che il lavoro nobilita l’uomo. Dice che il lavoro è quel che un uomo è, è lì che dimostra chi è. Beh, a me ste cose me fanno ride e non ho la minima intenzione de daje er valore che nun se meritano manco un po’. Sti cazzi, da vecchi vedremo. Io so’ un astrologo e sto lavoro che me vojono dà l’ho rifiutato, senza problemi. Che poi è vero, manco sapevo che lavoro fosse. Ma non m’interessava. Sono andato via e sono tornato a casetta. Si prospettava una seratina ideale, senza nulla di incombente da fare. Non sarei manco andato ar bar quella sera altrimenti m’avrebbero attaccato n’artro de quei filotti che non je la potevo proprio fà. Ho aperto la porta de casa e mi sono buttato in poltrona cor computer pronto a scrivere peste e corna sugli arieti che quell’estate m’avevano proprio stufato, quando invece, inaspettatamente, er pensiero m’è ritornato su quella bella moretta con gli occhiali in punta de naso. C’ho pensato e ripensato. Me piaceva come me guardava, me piaceva come m’aveva messo alla prova. Me so’ messo le mani in tasca, triste e rassegnato per essere andato via così, senza manco capire che quella donna me stava a piacé. E proprio in tasca ho ritrovato dei pezzetti de carta strappati. L’ho rimessi insieme: era il bigliettino da visita di Gianna che avevo strapazzato nell’ansia iniziale e avevo nascosto per celare il mio stato psicofisico. “Che culo”, ho strillato in un attimo d’euforia, subito prima di telefonarle.

Alla fine, in un certo senso, c’avevano ragione gli amici miei: niente lavoro, niente posto fisso, ma forse m’ero trovato ‘na donna.

“O no? Gianné?”

Di Paoletto Lion e Giovanna Santirocco

Illustrazioni di Elisa Lipizzi

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