Alcune riflessioni sul tema della dipendenza

Un tema che genera opinioni discostanti e causa spesso tensioni è quello sulle dipendenze. La complessità del tema porta a delle riflessioni generali che mirano a metterne in luce solamente alcuni aspetti. Si riconosce, dunque, l’incapacità di essere esaustivi, ma la speranza è di seminare qualche spunto di riflessione condiviso.

La dipendenza, riconosciuta da tutti come un problema sociale, diverge molto nelle modalità di diagnosi, cura e trattamento. Il DSM V, uno dei manuali diagnostici, per evitare un’eccessiva categorizzazione dei casi e di cadere nei famigerati “NAS”, non altrimenti specificati, ha adottato nella sua nuova edizione un approccio basato sull’arco di vita, iniziando con i vari disturbi del neurosviluppo per poi terminare con quelli neurocognitivi in età anziana. Il presupposto che la dipendenza sia una malattia, non sempre nel mondo è riconosciuta come tale, facilita in senso più esteso la cura e le attenzioni rivolte ai tossicodipendenti, spesso privi di rapporti sociali positivi, in balia delle più negative emozioni e accompagnati da malesseri fisici e di salute.

Nella società, la dipendenza non viene vista comunque di buon occhio. Spesso nell’opinione pubblica gli stigmi negativi e i pregiudizi sono più forti e resistenti della realtà. Le famiglie che hanno subìto questo dolore hanno una percezione assai diversa dalle altre, ma non sta qui fare l’analisi di tale fenomeno, bensì semplicemente far luce sulle possibili piaghe “sociali” (come la paura dell’untore) che la “malattia” può assumere. La vergogna di alcune famiglie, per esempio, potrebbe celarsi dietro alla considerazione che la dipendenza sia qualcosa di stupido e solo un buono a nulla potrebbe cadervi, non riconoscendone quindi la motivazione e la dinamica in atto. Per molti, infatti, curare le dipendenze risulta una perdita di tempo e vale il motto: “ognuno è artefice del proprio destino”. Se da una parte si può essere d’accordo sul riconoscere il proprio destino, dall’altra è impossibile negare quadri relazionali psichici e fisici compromessi. Questo modo di approcciare la dipendenza non favorisce una sua comprensione negli aspetti più profondi, delimitandone il raggio semplicemente nell’ambito del giusto o dello sbagliato, senza chiedersi come mai, da quanto tempo, cosa si prova prima o dopo o a cosa si rinuncia per la sostanza.

Si favorisce in tal senso un approccio in grado di abbracciare la complessità e la possibilità di comprensione più estesa del fenomeno. Anche gli enti di presa in carico e cura hanno le loro difficoltà. Oltre il famigerato scarso sostegno economico, forse derivante anche da una mancata coesione popolare sul tema, c’è la complessità stessa dei casi e una tensione sorretta su un sottile equilibrio. Il punto di tensione per gli enti di cura può essere rappresentato metaforicamente come un ago della bilancia che, in continuo equilibrio, dovrà bilanciare da una parte un’adeguata assistenza e cura e dall’altra l’evitamento della delega e il rinforzo dell’autoefficacia del soggetto. All’interno di questo meccanismo di equilibrio, fisico e psichico, si modellano i più diversi tentativi di recupero dei soggetti con dipendenze. Un modello particolarmente interessante risulta quello della comunità. Le persone che ne fanno parte, attraverso l’aiuto di psicologi e operatori sociali, ricevono un costante monitoraggio e aiuto con l’obbiettivo di un graduale reinserimento nella socialità. Se da una parte l’équipe medico-sanitaria aiuta la persona, dall’altra parte sarà lui a responsabilizzarsi e occuparsi di sé. Villa Maraini, a Roma, è una delle poche realtà che riesce a sorreggere il suo funzionamento attraverso un bilanciamento raggiunto negli anni che associa un profondo rispetto per la persona, garantendone le primarie necessità di assistenza. Allo stesso tempo, essendo tale metodo uno dei programmi “più liberi”, è fondamentale la ricerca di una motivazione interna per portare a termine il programma e compiere quindi azioni di responsabilizzazione e cura di sé.  Infatti, per alcuni individui la libertà si paga e ha un prezzo molto costoso in termini di difficoltà di gestione e progettualità.

La difficoltà per molti operatori e per i familiari sta nel bilanciare un’adeguata assistenza tra il rendersi disponibili e la possibilità di rifiutare le “deleghe”. Infatti spesso i tossicodipendenti hanno atteggiamenti di sfiducia nelle capacità personali di risoluzione dei problemi e una riscontrata tendenza ad attribuire agli altri le proprie difficoltà. La delega rappresenta quindi un tema sotto il quale si incentrano molte delle principali problematiche per questi individui. Per prima cosa, aver appunto delegato la propria vita e la propria felicità a una sostanza. In secondo luogo, quel processo di auto-deresponsabilizzazione messo in atto dal paziente.

Questo processo va capovolto e quello che potrebbe apparire come un “non aiutare”, favorisce indirettamente il processo di autorealizzazione dell’altro. Dietro al “non sostituirsi”, inteso come spinta all’autodeterminazione, si cela un meccanismo per ridare fiducia e potere all’altra persona. È in tempi e spazi come questi che, superate le prime difficoltà e incertezze, si inizia ad avere maggiore autonomia e consapevolezza delle proprie emozioni e azioni. Sperimentare anche la frustrazione, sentire la noia, sentire il limite, possono essere quelle emozioni generatrici di quella motivazione interna che guida chiunque la voglia ascoltare a modificare la propria esistenza. Il compito dello psicologo è ridare alla persona il potere dell’autoefficacia, temporaneamente smarrita. Come detto, in un percorso di recupero e in generale quando si parla di dipendenze, la componente mentale risulta avere un impatto enorme. Questo porta ad avere una pluralità di risposte diverse, ma allo stesso tempo detiene uno dei maggiori successi nella cura e prevenzione della dipendenza. L’aspetto mentale, la motivazione, insomma quella predisposizione alla “non chiusura” rappresenta una delle principali componenti di “guarigione”.

Una delle ultime considerazioni della psicologia sociale sta proprio nel sottolineare come l’opposto della dipendenza non sia, come molti potrebbero intuire, l’astinenza o il non uso, ma appunto la predisposizione alla socialità. Molte ricerche mostrano come la tendenza di questi soggetti sia quella di isolarsi o più comunemente finire emarginati, senza alcun tipo di relazioni sociali positive in ambienti non sempre dei migliori. Tutto accade inconsapevolmente, ma quando il pensiero ricade ossessivamente sulla sostanza come unica risolutrice o fedele compagna per affrontare i problemi, è già tardi. La sostanza in questi casi assume metaforicamente le sembianze di un “coperchio da cucina” che tappando la pentola evita di far uscire i vari problemi e le vicissitudini di vita. L’intento potrebbe essere quello di andare, attraverso la sostanza, su un piano “ideale”, in un mondo delle idee, su un piano totalmente cognitivo, nel quale ripararsi dalle fatiche del quotidiano della vita rappresentate invece da un corpo stanco e acciaccato. A tale riguardo, per rinforzare il concetto, le psicosi da sostanze spesso hanno questa pre-cornice, infatti alcuni possono avere uno “schizo”, dal greco scissione, e finire totalmente in un mondo che non ha più una sua effettività sulla terra, con l’incapacità di avere un esame obbiettivo della realtà che lo circonda.

Tornando alle dipendenze, se da una parte sono sempre esistite, dall’altra, la figura del tossicodipendente come fenomeno di massa ricade principalmente a partire dalla società industrializzata di fine ‘800. Spostare la sostanza dal “limite del sacro” e inserirla “nell’impuro quotidiano”, ha spezzato equilibri millenari che si basavano su un concetto animista spirituale e di accompagno dell’anima, associata all’iniziazione di un rito per mezzo di svariate sostanze. L’uomo ricorre all’automedicazione per sopperire ad alcuni dei suoi problemi. Se piccole dosi possono rappresentare felicità e cura, il successivo aumento le trasforma in veleno. La psiche e il corpo sono i veicoli con cui l’uomo sperimenta ciò che lo circonda e spesso l’uso significa poter alterare gli stati dell’uno e dell’altro, probabilmente per fuggire da una realtà in quel momento insostenibile. Ci sono poi molte persone che usano droghe per scelta, non ne sono dipendenti e ne possono fare a meno.

Forse il ragionamento andrebbe ampliato, ma non in questa sede. Rimane utile però soffermarsi a riflettere sul valore che la socialità può avere come antidoto alla chiusura e al conseguente annullamento di sé. Rivedere a tale riguardo l’obbiettivo nel futuro di condividere spazi, come ad esempio i quartieri delle nostre città, con l’auspicio di vivere in ambienti ricchi di stimoli piuttosto che “non luoghi” baumaniani. Ricominciare da quel calore comunitario di cui, in quanto esseri sociali, abbiamo bisogno.

Sorgono le domande sulle nuove difficoltà poste dall’emergenza sanitaria in atto. Le politiche di distanziamento sociale, per quanto necessarie, potrebbero non favorire l’integrazione di molti, costretti a vivere la propria solitudine in maniera ancora più dolorosa.

Una nuova sfida si manifesta, quella di ripensare al senso della cura e dello stare insieme: come, dove e quando “fare”! Attivare nuovi passi concreti per azioni di cambiamento e sviluppo. Una nuova sfida che si collega ad altri ambiti con cui interagire, quali ad esempio una nuova idea di architettura: quali spazi usare, costruire, ridisegnare… dunque ancora, “nuovi equilibri tra spazi dell’anima e della vita sociale”.

di Matteo Ansuini

Illustrato da Federico Russo

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