ANGOLI DI TRASTEVERE

Trastevere ed i suoi vicoli, quando la tarda notte ha dissolto il flusso dei turisti e degli avventori dei numerosi locali, si fanno silenziosi e quasi spettrali.

Ed allora, in quel momento sospeso nel tempo, è possibile imbattersi in diafane e misteriose presenze che si aggirano fra i vicoli dell’antico rione: piccoli uomini vestiti da chierico, con uno zucchetto rosso sulla testa e scarpe dove brillano fibbie d’argento che hanno la capacità di trasformarsi per non farsi scoprire.

Sono spiriti della casa, burloni e dispettosi, conosciuti come Mazzamurelli.

Essi possono prendere la forma di vecchietti con la parrucca, oppure di bellissimi giovani, ma se si riesce a rubargli il cappello sono disposti a riaverlo in cambio di grandi ricchezze.

Nelle case la loro presenza è avvertita da rumori che essi producono battendo sui muri: infatti il loro nome viene da “mazza” e “murello”, ossia muro.

Sono innocui, ma al contempo sono messaggeri tra il mondo reale ed il mondo della magia, tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti.

La loro presenza in casa può indicare la vicinanza di un tesoro, ma possono essere forieri di una disgrazia; oppure possono recare messaggi da parte dei defunti, anche se a volte sono così dispettosi da rompere la cristalleria; oppure rubare preziosi, tanto da far credere al popolo che questi piccoli spiriti, in realtà, un tempo fossero stati angeli cacciati dal paradiso per la loro cattiva condotta.

A Trastevere, nel Cinquecento, iniziò a circolare la voce che c’era una casa infestata dai mazzamurelli. Qualche secolo dopo, nell’Ottocento, in quella casa viveva un uomo poco raccomandabile che si spacciava per mago, alimentando la leggenda del palazzo infestato dai piccoli spiritelli. Purtroppo nel 1880 il palazzo venne abbattuto per la costruzione di Viale Trastevere ed oggi la corta via dei Mazzamurelli resta a testimoniare un passato di magiche leggende.

Ma nelle notti trasteverine potreste incontrare altri fantasmi.

Una donna misteriosa, diafana e ammantata, si aggira nei luoghi dove visse: il suo nome è Lorenza Feliciani, nota come Serafina, la bella e spregiudicata consorte del Conte di Cagliostro, celebre mago, alchimista e guaritore.

Nacque intorno al 1754 da una famiglia povera e crescendo divenne una bellissima fanciulla dalla pelle diafana e dagli occhi chiari che presto si diede alla prostituzione, affinando le arti del raggiro. Non sapeva né leggere né scrivere, ma tutto ciò non le impedì di conoscere giovanissima (forse aveva 14 o 15 anni) il famoso conte Alessandro Cagliostro, uomo la cui misteriosa identità si confonde con quella del suo altrettanto misterioso alter ego Giuseppe Balsamo. Tanto era colto ed istruito in molte discipline Alessandro, tanto era dedito alle truffe Giuseppe. Ancora oggi il mistero legato a questo affascinante avventuriero dalla doppia faccia non è stato completamente risolto.

I due si sposarono nella chiesa di San Salvatore in Campo, oltre il Tevere. La vita della donna quindi seguì le vicissitudini del proprio compagno, seguendolo per tutta Europa tra raggiri e affari internazionali.

Di Lorenza esiste una interessante descrizione lasciataci da Giacomo Casanova:

«Destava interesse per la sua giovanissima età, per la sua bellezza che la mestizia aumentava […] Ella mi disse che era romana, e non aveva bisogno di dirmelo, giacché il suo grazioso linguaggio mi dava certo che così fosse… Disse che suo marito, uomo vigorosissimo, non aveva sofferto, ma che lei aveva patito atroci pene nel dover camminare sempre a piedi e dormire in letti cattivi, quasi sempre vestita per paura di contrarre malattie della pelle, di cui poi sarebbe stato molto difficile guarire. Mi parve verosimile che ella ci parlasse di quella circostanza non per altro per metterci nella curiosità di vedere la pulizia della sua pelle in altre parti oltre le braccia e le mani, delle quali intanto ci lasciava vedere gratis la bianchezza e la perfetta pulizia»

Ma il rapporto tra Lorenza e Cagliostro era tenuto vivo anche dalla scaltrezza della donna che era complice degli affari spesso truffaldini del marito. Sicuramente mossa da avidità di ricchezze la fanciulla non si faceva troppi scrupoli nel sedurre ricchi amanti con il consenso del marito che tramava ricatti.

Ma tale sodalizio ebbe fine quando Cagliostro (affiliato alla Massoneria inglese nel 1777 a Londra) venne arrestato nel 1789 a Roma con pesanti accuse che andavano dalla magia, all’eresia alla massoneria, al lenocinio, truffa e scritti sediziosi, mentre i suoi incartamenti furono bruciati in piazza della Minerva: era stato denunciato proprio dalla moglie.

Il processo commutò la pena di morte in carcere a vita nella rocca di san Leo. Mentre per Lorenza, durante il processo, si aprirono inevitabilmente le porte del monastero-carcere di santa Apollonia in Trastevere sotto la sorveglianza del Governo Pontificio, nell’aprile 1791 dopo la sentenza fu trasferita nell’attiguo convento di santa Rufina. Lorenza condusse vita ritirata per ben 15 anni sostenuta da una pensione che le era stata concessa e da sussidi medici a causa di una salute non buona. Dagli archivi non risulta che si sia mai pentita per aver denunciato Cagliostro e non risultano contatti con la sua famiglia: sembra che fosse stata dimenticata da tutti. Uscì dal convento nel 1806 ed iniziò a lavorare come portinaia nel Collegio Germanico di Piazza Santa Apollinare. Qui rimase fino alla morte per infarto avvenuta il 12 maggio del 1810: la sua morte verrà registrata dal portinaio e dal becchino che la dichiarano vedova del fu Cagliostro. Aveva 59 anni e fu sepolta con il rito dei poveri nella chiesa di Santa Apollinare.

Si dice che il suo fantasma tormentato dal senso di colpa si aggiri nelle vie di Trastevere tutte le notti…

Ma non è l’unica anima dannata: c’è un’altra presenza femminile che, accompagnata da una schiera di diavoli, percorre con la sua carrozza maledetta questo rione.

Il suo nome era Olimpia, chiamata dal popolino che poco la amava, Pimpaccia.

Il suo fantasma sconta la pena di essere stata una donna avida, opportunista e ambiziosa.

Olimpia Maidalchini nacque a Viterbo nel 1652 da una famiglia della media borghesia, ma crebbe in un ambiente abbastanza ristretto che comunque l’avrebbe destinata al convento come le sue sorelle. Il carattere ribelle della fanciulla non accettava tale destino e pertanto nel 1608 si sposò con un membro di una importante famiglia viterbese, ma solo dopo tre anni perse sia il marito che il figlioletto. La giovanissima vedova, di agiate condizioni, non ebbe difficoltà a trovare un nuovo marito: grazie a suo zio conobbe Pamphilio Pamphili, già cinquantenne, ma appartenente ad una famiglia di grande prestigio. Si sposarono nel 1612. Con questo matrimonio inizia una nova vita per Olimpia.

Importante personaggio nella vicenda familiare è il di lei cognato, Giovanni Battista Pamphili, avviato ad una brillante carriera ecclesiastica che lo porterà nel 1644 ad essere eletto papa con il nome di Innocenzo X. Da questo momento Olimpia acquisterà una posizione eminente nella vita politica di Roma e non si fermerà davanti a nulla. Il suo magnifico ritratto marmoreo, opera di Alessandro Algardi, rivela un carattere volitivo e risoluto.

Per la sua avidità, i romani non l’amavano affatto: si dedicava con profitto ad affari imprenditoriali che spesso conduceva con spregiudicatezza e cinismo. Inoltre aveva l’abitudine di recarsi a suo piacimento negli appartamenti papali, nonché di presenziare a tutte le manifestazioni pubbliche accanto al papa, rivestendo un ruolo inconsueto che mostrava la sua forte determinazione per autoaffermarsi.

Così Pasquino l’anonima voce del popolo romano, scriveva di lei:

«Per chi vuol qualche grazia dal sovrano / aspra e lunga è la via del Vaticano / ma se è persona accorta / corre da donna Olimpia a mani piene / e ciò che vuole ottiene. / È la strada più larga la più corta»

In Trastevere Donna Olimpia edificò il suo Casino, ossia un luogo di riposo affacciato sul fiume dove vi era anche una spiaggia: i cosiddetti Bagni di Donna Olimpia. Nel progetto originale la famosa fontana della Lumaca di Gian Lorenzo Bernini doveva essere collocata proprio nel giardino del casino (ora l’opera si trova a Palazzo Doria Pamphili). Il casino si trovava annesso al complesso della antica chiesa di santa Maria in Cappella e nel 1846 Don Carlo Doria Pamphili lasciò nelle sue disposizioni testamentarie la volontà che vi fosse edificato un ospizio che accogliesse gli anziani. Alla sua morte, il nipote Don Filippo Andrea Pamphili fondò l’Ospedale dei Cronici nel 1860. Nel 1888, per i lavori degli argini del Tevere, parte dell’edificio con Loggia sul fiume venne demolito.

Resta tuttavia la memoria di questo luogo legato alla Pimpaccia, della quale si narra che alla morte di suo cognato il papa, piuttosto che occuparsi delle sue esequie, pensò bene di accaparrarsi tutto l’oro che poteva e fuggire con le casse piene. Ma il nuovo papa Alessandro VII Chigi – che non l’aveva affatto in simpatia – la esiliò da Roma: Donna Olimpia prima si recò ad Orvieto, poi presso l’abbazia di san Martino al Cimino, dove possedeva un palazzo, ed ivi morì nel 1657.

La leggenda vuole che nelle notti di luna piena si possa sentire il fragore della folle corsa della carrozza di Donna Olimpia trainata dai Diavoli che la portano all’Inferno, mai pentitasi per la sua avidità e sfrenata ambizione…

Da ciò deriva il toponimo via Tiradiavoli, ossia quel tratto di via Aurelia antica che passa sotto Villa Pamphili ed arriva a Porta san Pancrazio al Gianicolo.

Ma al sorgere del sole, il tempo reale riprende possesso di Trastevere e i vivi tornano a popolare le viuzze del rione, lasciando alla notte quella dimensione irreale che riporta in vita misteriose presenze e antiche storie…

Buona notte sognatori!

 

Di Adelaide Sicuro

Illustrato da Nicoletta Guerrieri

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